venerdì 22 settembre 2017

La voce del cuore

Le briciole inondano il tavolo rosso
Come le gocce saettano nella foresta
Un connubio che mi sconvolge.
Ho finito
Solo per un po’
Ma ancora una volta sono arrivato,
sono in pace.
La vallata rosa mi sveglia
Col sorriso,
le pecore belano
mentre il pastore le indirizza
a sassate;
un vento forte mi scompiglia la chioma
fa freddo ma siedo
in silenzio
e sorrido sempre.
Inizio a camminare
Veloce e sicuro
Le mucche mi scrutano
Ma ora si fidano
Tutt’intorno nuvole nere
E lampi fragorosi
Arriva la pioggia?
Credo di sì
Mi prenderà, lo so
Sii forte ragazzo!
E così arriva
E il sentiero si trasforma
In un torrente
I torrenti in fiumi
le macchine in scialuppe
ma no, io non mollo!
Cammino ancora
Un po’ qua un po’ là
Impreco
Ma continuo.
Ho paura di non tornare
Oggi è domenica
I mezzi non circolano
Invece le paranoie corrono
Ma poi, d’improvviso
La voce del cuore mi quieta
Stai tranquillo
Tutto si sistema,

ed è proprio così.

martedì 12 settembre 2017

Un'altra poesia

Mi sveglio
Il fuoco non c’è più
Nemmeno la luna
Bianca, con le sue mille facce
Splendente come il sole
Ma magica quanto la notte.
Mi rigiro nel sacco
Non ho voglia di uscire
Ancora
Poi però la luce mi chiama
Così esco e faccio un po’ di yoga
Riscaldo lo spirito.
La discesa è ardua, si sa
Ma quando mi guardo intorno
Scoppio sempre a piangere
E ringrazio il mondo intero:
le piante che mi circondano
verdi e avvolgenti,
il cielo che mi sovrasta
solito compagno a cui rivolgere le proprie preghiere,
e infine le montagne
mirabolanti divinità.
A Poggiovalle mi aspetta Tommaso
Che mi indica la via,
Su e giù per fiumi e colli
Vecchi sorrisi mi accolgono
E mi fanno venir voglia
Di piantare la tenda qui
Per sempre.
Però continuo
Con una consapevolezza:
ogni volta che mi fermo
il verde racconta storie
di freschezza e gioventù
ci vedo meglio
so dove andare
ma anche non lo sapessi
non importerebbe affatto
perché l’importante è camminare
percorrere la strada
comunque sia messa
danzare con una formica sul tavolino

o ridere col ginepro secco.

mercoledì 30 agosto 2017

"Lo sguardo del felino"

Sotto gli sguardi protettori dei gatti
Contemplo un giorno scorrer via,
Le nuvole disegnano dedali lungimiranti
Un labirinto senza retaggi
E io mi scopro ad amare il Creato.
Il giardino è vecchio e appesantito
Serba reminiscenze di antiche glorie
Ma possiede quel sentore di menta e rosmarino
Che nessuna erbaccia potrà mai portar via.
I colori si accendono al crepuscolo
Come nell’ora del mattino,
I felini son più svegli
Infatti la calura è passata
E si può tornare a respirare.
Mentre la stella più grande cala pian piano
Tutto assume un contorno più nitido
E la vera forma dell’essenza appare evanescente,
La pace mi circonda
Moscerini volanti, una tovaglia rossa e qualche prurito
I bambini giocano con un pallone
Risate ovattate sorvolano l’aria;
Provo a pensare

Ma mi viene solo da sorridere.



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mercoledì 20 luglio 2016

Racconto automatico

Mi svegliai, improvvisamente sudavo. Goccioline roventi ticchettavano incessantemente sull’ispido terreno; musica ovunque.
“Dove sono?” pensai, mentre tentavo goffamente di alzarmi.
Strani eco si insediarono all’interno delle mucose. Cercai di divincolarmi da quella massa informe. Una baraonda di macchine, ero circondato da robot; migliaia di robot. Lastre luccicanti, schermi e bulloni. Un repentino senso di panico mi avvolse.
“Ma dove sono finito?” disperai.
Mentre spingevo per fuggire da quell’accozzaglia sottomessa, urtavo da ogni lato; mi ferivo. Strisce di sangue dipingevano il terreno come fosse una macabra opera d’arte. Nessuno si accorse di nulla, ciascuno così preso dal suo automatismo. Non esiste la volontà, è uno scherzo, una bugia. Un’invenzione dei mass media. Il panico si trasformò in terrore così bruscamente da far intimidire un agile ghepardo. Boccheggiavo; quel muro fantascientifico bloccava l’accesso anche alla più timida brezza. Inciampai nel dolore. Buio, buio, sempre più buio. L’oscurità mi avvolse nel suo ombroso mantello. Poi, d’un tratto, la luce. Mani brancolavano verso di me, carne e grida, unghie e pellicine. Orribile meraviglia umana. Fui sollevato dall’oblio.
“Dai, presto!” qualcuno gridò da un punto indistinto. Dalla voce pensai si trattasse di una ragazza. “Non possiamo rimanere troppo, si accorgeranno di noi!”
Rinvigorito da quella passione che solamente un essere vivente poteva emettere, cominciai frettolosamente a camminare. Non sapevo dove, né il perché, seguivo l’istinto; sopravvivere. L’ombra salvifica che pedinavo saettava velocemente nella semi-oscurità. Man mano che proseguivamo quella che inizialmente mi era sembrata musica si affievolì. Anche le macchine si diradavano sempre più. Mi voltai; non era musica … tutti quegli automi erano come ipnotizzati da un imponente palco. Sopra, una riproduzione mastodontica di una cassa da concerto. E quel terribile suono, mi violentava le orecchie! Ma sembrava una piacevole droga per quel branco addomesticato. Più che altro un tremendo psicofarmaco; un forte scossone mi fece tornare coi piedi per terra.
“Non dormire!” mi sgridò la giovane voce femminile “abbiamo ancora molta strada da fare”
Sconsolato e confuso, la seguii senza opporre resistenza. – Cos’altro potrei fare?- pensai amareggiato. In fondo non sapevo più nulla; mi ero svegliato all’inferno, e lei me ne stava tirando fuori. L’ultima cosa che ricordavo prima di quella sventura era … niente! Non ricordavo assolutamente nulla. Mi sforzai di rivangare qualche immagine dal mio passato, inutilmente. Era come se fossi stato azzerato, ero rinato; non ero nessuno. Nonostante facesse caldo, raggelai. Immerso in un turbinio di pensieri e domande, continuai a camminare senza dir nulla.
Stavamo percorrendo un lungo tratto di spiaggia macabro e desolato quando finalmente la mia attraente salvatrice aprì bocca. Era alta, con un fisico forte e atletico ma slanciato, due seni prosperosi, gambe sode e formose. Lunghi capelli biondi le solcavano il grazioso e semplice visetto, senza ombra di trucco. Occhi grandi e penetranti mi studiavano con attenzione , mentre con la bocca e il naso sembrava carpire ogni minimo movimento.
“Siamo quasi arrivati” annunciò in tono quasi solenne “il Buco è vicino” aggiunse, con un lampo negli occhi.
Non capii subito cosa volesse dire; continuava imperterrita nel suo agile e rapido passo, mentre io le stavo dietro ansimante. Colsi l’occasione per proferir parola.
“Il Buco?” chiesi annaspando “Cos’è?”
“Risparmia il fiato” controbatté severa “ne avrai bisogno …” disse, senza smorzare il passo.
Poco dopo mi resi conto del perché; infatti arrivammo ai piedi di un aspro colle. Sembrava parecchio arduo da superare, stracolmo com’era di sassi instabili e arbusti inespugnabili. Ebbi quasi un mancamento.
“Non mi dire che dobbiamo oltrepassare questo coso?!” le domandai con enfasi tremolante. Le forze mi stavano abbandonando a causa dello shock iniziale e della lunga camminata, non credevo di potercela fare.
“Proprio così!” affermò con decisione la graziosa figura che mi precedeva “Forza, non perdiamo tempo!”
“Ma perché l’hai chiamato il Buco? Sembra più una fortezza medievale!”
“Zitto e cammina!” mi urlò seccata, già impegnata nella dura scalata.
Sbuffando, iniziai a seguirla. No che non fossi abituato a grandi sforzi, in fondo ho sempre amato l’intenso allenamento fisico; il problema era che tutta la realtà che circondava il mio fragile guscio stava crollando come un castello di carte al vento. Non sapevo più chi ero, cosa cercavo, in cosa credevo; il dubbio ammorbava il mio spirito. Quasi da subito il volto mi si imperlò di sudore; -dura arrampicata- pensai mentre ero impegnato a trovare un appiglio per le mani. Tentavo goffamente di rimanere stabile, ma sbattevo in continuazione la testa contro la roccia sporgente, per non parlare dei rami che mi graffiavano gambe e braccia provocandomi un’acuta sensazione di sofferenza, come tanti minuscoli aghi conficcati a forza nella carne; una sensazione assai spiacevole. Caldo; caldo e fatica. Avrei voluto essere a casa, sul mio letto, perfino in poltrona. Volevo la mamma, fermarmi a riposare, piangere!
-Perché nessuno mi ascolta?!- urlai nella mia testa. Tutto intorno a me iniziò ad annebbiarsi, come in una laguna al calar della sera. Mi stavo lentamente ma inesorabilmente scollegando dalla realtà circostante, così iniziai a errare nell’infinità dell’universo. Vagavo tra le stelle sconfinate, nel buio più totale, tra luci colossali e palazzi di cristallo. Piansi nello scrutare l’ignoto, desiderando unicamente di fondermi con lo spazio, essere parte del tutto, per sempre …
“Ei! Ei!” grida dall’alto mi penetrarono nei timpani come scosse sismiche scuotono le fondamenta di un edificio. Ero di nuovo sveglio, forse.
“Continua a salire!” mi ordinò severamente la ragazza.
Ripresi a salire, sbuffando vigorosamente. Dopo un periodo di tempo che mi sembrò infinito, finalmente raggiungemmo il famigerato buco. A primo impatto mi sembrò solo una grossa cavità nel colle, ma poi, guardando meglio, mi resi conto della maestosità di quel luogo. Un complesso sistema di grotte arcane ricavate nella roccia. Tutto sembrava così preciso, lavorato al dettaglio, un’opera ingegneristica di elevata fattura. Al mio stupore nell’ammirare quella costruzione si aggiungeva lo stupore di una piccola folla accorsa attorno a me, producendo un’atmosfera surreale. Persone curiose si avvicendavano nello scrutarmi, domandandosi chi fossi, come fosse possibile trovare ancora esseri senzienti in libertà tra tutti quegli automi. Occhi furtivi posarono i loro sguardi indagatori su di me, mentre mani languide mi sfioravano per accertarsi delle mie fattezze.
Si sentiva la gente mormorare “Ma chi è?” “Un nuovo sopravvissuto?” “Mamma, mamma, quel signore ha tutti peli in faccia!”
Risi in silenzio; -che meraviglia la sincerità dei fanciulli!- pensai in quel momento. Ovviamente si riferiva alla lunghezza titanica della mia barba, tralasciando il fatto dei capelli ricci e lunghi fino alle spalle; sembravo un hippy futurista, un selvaggio alle prese col mondo moderno, insomma un disadattato. Forse volevo esserlo.
“Ora posso sapere chi sei?” domandai alla mia accompagnatrice, che sfilava come una dea amazzone facendomi strada tra la folla.
“Lei è mia figlia, Alice” così fece la sua apparizione sulla scena un vecchio dall’aria tanto saggia quanto esaurita “e io mi chiamo Tony. Sono il pastore di questo piccolo gregge” concluse meditabondo.
-O cazzo- pensai –spero proprio di non essere finito in una di quelle strane sette di cui si sente parlare in tv!-. Ma poi mi sbalordii di questo pensiero; come potevo ancora immaginarmi la tv? O qualcos’altro che concerne il mondo reale? Sono morto, oppure sono andato in coma e sto viaggiando tra le spire del mio cervello; qui non c’è nulla che abbia a che fare la normalità.
“Sei ancora tra noi?” il vecchio mi guardava penetrandomi con i  suoi profondi occhi blu, come se riuscisse a scandagliare i misteri più inaccessibili della mia anima con quel suo sguardo di ghiaccio “dicevo” proseguì “questo è il Buco. Nient’altro che un piccolo insediamento dove abbiamo trovato riparo da quelle …” fece una pausa roteando gli occhi “orribili macchine”.
Dicendo questo le sue parole cambiarono tono e quasi forma in maniera emblematica; aveva posto un particolare accento di disprezzo sulla parola macchine. Le odiava dall’alba dei tempi; perlomeno dei suoi, di tempi.
“Che cosa sono queste macchine?” chiesi intrepido “e perché vi nascondete da loro? Io poco fa ero sommerso da questi cosi ma non sembravano volermi fare del male, non erano ostili, solo …”
“Sono dei mostri!” “Adorano la devastazione e la morte!” fui interrotto da grida di indignazione da parte del popolo.
“Basta su! Fate SILENZIO!” ordinò Tony, riportando l’ordine all’interno della grotta nella collina.
Le voci prima diventarono sussurri, poi si affievolirono fino a zittirsi. Era una situazione irreale, all’interno di un monte, circondato da terra rossa e teste bianche, disperso dal mondo come lo conosciamo. Alzai lo sguardo verso l’alto; d’improvviso fui colto da una luce folgorante dritto negli occhi. Per qualche istante non vidi più nulla, zero assoluto. Poi, lentamente, piccoli flash di colore iniziarono a impadronirsi nuovamente della mia vista e potei captare qualche confusa immagine. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, tutt’intorno urla e grida; ma non erano come prima, non erano voci di rabbia, bensì pianti di terrore, lamenti terribili, fughe scalpitate. Tentai di mettere a fuoco il tutto. Mi trovavo accovacciato in un angolo del Buco, con la testa appoggiata a terra; polvere dorata si infilava in ogni cavità aperta del mio viso rendendomi quasi impossibile la respirazione. Sputai rumorosamente, poi alzai lo sguardo. Era la devastazione più completa; orde di aerei dotati della più sofisticata e avanzata tecnologia che io avessi mai visto stavano sparando reti su tutti i fuggiaschi. Purtroppo per gli altri, avevano utilizzato anche armamenti pesanti; infatti si poteva ammirare il tetro spettacolo di resti umani spiaccicati un po’ ovunque, sangue spruzzato sulle pareti e brandelli di indumenti svolazzanti. Un putrido sentore di morte aleggiava nell’aria e rendeva il tutto così immobile, nonostante le grida, le macchine, la concitata dissoluzione dell’umanità ancora esistente. –Ci hanno seguito?- riflettei, come se lo sfacelo circostante fosse alieno dalle mie membra. Osservai poco più in alto, e fu in quell’istante che mi accorsi di una cosa che non avevo minimamente notato prima, troppo preso dalle vane preoccupazioni umane; il cielo si era oscurato. O almeno parzialmente oscurato. Mura inaccessibili e monumentali si ergevano circolarmente da ogni lato della terra; non era più possibile ammirare l’alba, o il tramonto. Neppure la linea dell’orizzonte sarebbe stata più visibile! Disperai per un momento, senza pensare agli aerei annientatori che mi circondavano; disperai e basta. Il cielo era stato violentato da quella immonda costruzione, e nessuno l’avrebbe mai più rimesso com’era, la violenza aveva osato troppo. Un immane peccato contro tutto il creato era stato compiuto e io, solo, gemetti di straziante dolore. Ora era visibile solo una piccola porzione di cielo, che comunque emanava una notevole luce; ma sembrava pur sempre di essere confinati in un pozzo, un angusto e claustrofobico pozzo di campagna. Inizialmente non riuscì a capire l’utilità di quella muraglia –che cosa possono voler raggiungere?- meditai scombussolato. Un tunnel che colleghi la terra a cosa? Un altro pianeta? Il sole? La luna?! O chissà cos’altro! In ogni caso sarebbe stato del tutto inutile, dato il continuo movimento dei pianeti e delle stelle qualsiasi tentativo di collegamento della Terra con qualcos’altro di mobile nello spazio sarebbe stato assolutamente vano. Allora cosa stavano tentando di fare?
“Che cosa diavolo volete fare con quello?!” urlai, quasi in maniera inconscia, alzandomi di scatto, sollevando così un bel polverone rossastro.
Gli aerei robot rimasti, che fino a quel momento non mi avevano notato, puntarono il loro caleidoscopico grugno nella mia direzione. Erano enormi, metallici da far paura e producevano dei suoni a dir poco traumatici; come un trapano a tutta potenza nella stanza accanto alle sei del mattino. Ben presto mi pentii amaramente di aver parlato. Prima ancora di poter far partire dal cervello il segnale nervoso che avrebbe portato alcune parti del mio corpo a muoversi, una di quelle tremende apparecchiature mi inondò con un flash luminoso e mi scaraventò a terra. Mi resi conto di esser finito in una di quelle pesanti reti con cui avevano catturato molti degli altri; -i più fortunati- ragionai con l’ultimo bagliore di lucidità. Poi, il vuoto.
Aprii gli occhi, mentre la luce della luna piena penetrava offuscata nella stanza. Ombre indistinte baluginavano qua e là sulle pareti, piroettando come in una danza russa. Orchestra e balli primaverili in cerca di un pubblico; le pantofole e poi …
Nauseabondi versi metallici ronzavano senza freni nelle mie orecchie; provai un senso di disgusto. Sputai sangue e sulle labbra arse dilagò il ripugnante sapore del ferro; ancora metallo. Tentai di aprire gli occhi, ma subito emisi un verso di agghiacciante dolore. Le palpebre dolevano e bruciavano come se migliaia di piccole zampette bollenti ci stessero camminando sopra.
“Aspetta qualche minuto” sentenziò una saggia voce nell’oscurità “Dai il tempo ai tuoi occhi di riprendersi dai flash accecanti degli aerobot”
-Aerobot- pensai annebbiato –adesso so come si chiamano quelle maledette macchine che mi hanno preso. Che sollievo! Ora posso morire in pace- Fare sarcasmo in certi momenti credo si tratti di una abilità per pochi impavidi, imprese per eroi d’altri tempi.
“Chi sei tu?” domandai al vuoto soggiogato dalla sofferenza.
“Io? Cosa importa chi sono io, o chi siamo noi. Siamo tutti morti, carne da mandare al macello. Come delle povere bestie con il destino ormai segnato, camminiamo per un lungo e oscuro corridoio senza chiederci il perché, ma siamo tristi. Sappiamo della fine incombente, ma nonostante ciò nulla si può fare; il triste fato ci attende”
Rimasi confuso da tali parole; mi avevano colpito come un fulmine in un caldo giorno d’estate. Ero paralizzato dalla testa ai piedi. Non sapevo cosa pensare o cosa fare; sbagliato! Sapevo cosa fare: provare ad aprire gli occhi. Tentai nuovamente con rinnovato vigore. Questa volta, con grande sacrificio, riuscì a intravedere qualcosa. Una lunga e folta barba, grigia come la cenere al mattino nel bel mezzo del camino.
“Complimenti, figliuolo” bofonchiò quella misteriosa voce che ora riconoscevo essere un uomo anziano dall’aspetto assai saggio “bentornato fra noi” Il suo sorriso era soave e innocente, come quello di un bambino.
“Dove siamo?” gli domandai mettendomi a carponi.
“Dove? E chi lo sa! Sono anni che sono rinchiuso qui dentro insieme a queste altre anime dannate” dicendo così si spostò mostrandomi il complesso. Un luogo raccapricciante, sovraffollato di gente, senza aria; claustrofobico solo a guardarlo. Non c’era nessun mobilio, né alcuna finestra, niente di niente; solo buio e mura. Una prigione di ferro nera.
“Ogni giorno siamo chiamati ad aiutare le macchine a costruire quel maledettissimo muro, sempre più in alto, sempre più su! E per chissà cosa poi?! Io sono il più longevo qui dentro, quello che ha resistito di più, e ancora non conosco la ragione di tale costruzione!. Qui la vita è dura, si mangia male e poco, si sgobba tanto e non si dorme mai” poi, avvicinando il suo volto al mio, aggiunse contraendo il volto in una smorfia raggrinzita “E tu, quanto credi di poter resistere?”
In quel momento provai un terrore profondo, quasi come se provenisse dalle più sconosciute profondità degli abissi per attanagliarmi l’anima. Si avviluppò su di me come una tigre sulla sua preda, affondando i suoi affilati artigli sul mio ego.
“Ma … ma .. come è possibile?” balbettai in preda al panico “Che cosa se ne fanno di noi?” urlai voltandomi verso gli altri e guardandoli con aria disperata e interrogativa “Sono dei robot, giusto? E allora perché cazzo devono usare manodopera umana per fare il loro sporco lavoro?!”   
Gli altri si scambiarono sguardi allusivi; conoscevano già la risposta, ma era troppo umiliante per poterla accettare. Il signore dallo sguardo sapiente ebbe il coraggio, o la pietà, di continuare a parlare.
“Per dimostrare la loro superiorità su di noi. Semplice, no?” annunciò con tono quasi compiaciuto “Ora te lo spiego” e fece una pausa “pensa alla storia che ci hanno raccontato da piccoli. Se ricordi bene, ci sono tanti esempi di ciò nel nostro passato: come i faraoni egiziani facevano costruire le loro tombe, le piramidi, agli schiavi, così fanno loro con noi. Come i mass media comandavano a bacchetta la gente nel ventesimo e ventunesimo secolo così loro adesso comandano noi. Ci usano per i loro scopi, senza neanche dire grazie. Siamo degli oggetti, utili finché utilizzabili, e poi da buttar via; un vecchio asciugamano usato. Vogliono dimostrare la loro forza, quanto possono osare, e per dare sfogo a questo loro senso di superiorità usufruiscono delle nostre energie, delle nostre vite!” pontificò solenne.
“Certo, è uno schifo, una vita d’inferno, dove la morte rapida è l’unico desiderio esaudibile e auspicabile; ma non è peggio di quello che l’uomo ha da sempre fatto a sé stesso. Come nei tuoi esempi, come i faraoni egiziani, come gli imperatori romani, come i presidenti americani!” protestò vivacemente qualcuno tra la folla.
Nuovamente piombò il silenzio tra noi; povere bestie ammassate l’una contro l’altra, senza fiato. Come in un thriller ben fatto. Mi guardai intorno, incredulo. Era pieno di gente, donne e bambini,  neri e bianchi, giovani e anziani, tutti insieme appassionatamente per assecondare i desideri di qualche malata mente robotica. Tutto sembrava così assurdo.
“E voi permettete tutto ciò?” urlai, in preda alla disperazione più acuta, rivolto a tutti e a nessuno “continuate a lavorare per quegli automi senza ragiona alcuna, giorno dopo giorno, ora dopo ora, in attesa della fine? Come potete permettere tutto ciò?!”
“E cos’altro potremmo fare?” gridò indignato l’anziano saggio “Credi di essere il primo ad avere avuto la brillante idea di ribellarsi, di non lavorare, di provare a scappare?” pose particolare enfasi nel pronunciare quest’ultima parola.
Si era particolarmente agitato nel rispondere alle mie accuse, e così gli era venuto un attacco convulso di tosse; alcuni intorno a lui lo aiutarono a sedersi. Sputò una grumosa quantità di sangue e saliva a terra. Passata la tosse, si risistemò, alzò lo sguardo cercando i miei occhi con i suoi, e poi continuò a parlare.
“Chiunque abbia mai provato a scappare è stato catturato da loro ancor prima di poterci pensare. Dio solo sa che fine abbiano fatto …” detto questo la sua voce si smorzò. Probabilmente stava cercando di recuperare le residue forze rimastegli; l’indomani avrebbe dovuto continuare a erigere l’opera, come d’altronde tutti noi.
Ricordo che pensai che sarebbe stato meglio un salto verso l’ignoto piuttosto che rimanere lì ad aspettare la chiamata della morte, ma decisi di non controbattere. Sinceramente non fa parte del mio carattere compatire chi si arrende agli eventi della vita senza tentare perlomeno di combattere, di resistere. Io ho sempre lottato nella vita per raggiungere i miei obiettivi, e che li abbia poi effettivamente raggiunti o meno poco importa, l’importante è battersi strenuamente. Darsi da fare fino all’ultimo; questo ti porta a crescere, e anche a capire. Rimasi a lungo a pensare, accalcato insieme a quel triste tripudio di carne e ossa, in silenzio.
Un freddo e stridente ululato echeggiò dappertutto nell’oscurità della caverna facendomi sobbalzare in aria; sembravo l’unico così spaventato da quel rumore assordante, gli altri lo accolsero come si accoglie un ospite particolarmente indesiderato. Facce grevi e sguardi pesanti si avvicendarono tra la folla, producendo un’atmosfera di assorta malinconia e stanchezza cronica. Sembrava un lunedì mattina in una grande fabbrica in mezzo a degli operai abbastanza svogliati.
“Che succede?” chiesi a una donna di mezza età alquanto malconcia che mi stava affianco.
“Inizia il turno” mi rispose senza alcuna emozione.
La guardai e mi commossi. Poteva essere mia madre; ma in lei non c’era più vita, era morta dentro. Come un animale al circo. Poi fu la luce. Mi accecò per un istante e dovetti ripararmi gli occhi per non rischiare di perderne l’uso, cosa che comunque accadde temporaneamente. Quando fui in grado di riaprirli mi resi conto che una serie di macchine, della specie di aerobot simili a quelli del giorno precedente, ma più piccoli e senza i cannoni di cui erano dotati gli altri, controllavano il flusso dei lavoratori. Tutti si stavano spostando verso una determinata direzione, ma da dietro non riuscì a captare la meta. Cominciai a muovermi, sospinto dalla marea umana che incalzava; non ci si poteva fermare. Poco dopo mi accorsi che tutti si spostavano in direzione di alcuni giganteschi ascensori aperti che conducevano verso l’alto, molto probabilmente nella zona adibita al lavoro. E fu lì che la vidi. I suoi seni gonfi, le gambe lunghe e sode, le dita affusolate, un corpo da dea. Alice, la mia salvatrice; il mio angelo.
“Alice!” gridai “Alice!Alice!” alzai il volume di modo che potesse sentirmi tra il frastuono della macchine e i passi rimbombanti degli schiavi.    
Era con un altro gruppo di lavoratori, sporca e ferita. Il suo sguardo non emanava più l’ardore del giorno precedente; era stata catturata, ora era come un uccello in gabbia. Dopo che la chiamai, alzò lo sguardo, cercò per un po’ in giro la fonte di quel rumore e poi mi vide; subito sembrò ritrovare parte dell’audacia persa, i suoi occhi si infiammarono di nuova linfa. Il richiamo della natura selvaggia giaceva ancora in lei, assopito ma non distrutto. Mi fece un cenno agitato con la mano, incredula di avermi ritrovato. Si guardò intorno per assicurarsi che le macchine fossero abbastanza lontane da lei, dopo di ché, a grandi balzi e spintonando chiunque si trovasse sul suo cammino, mi raggiunse di gran carriera. Si fermò a un panno dal mio viso; mi squadrò a lungo senza parlare. Poi, dopo un’interminabile attesa, mi abbracciò. Nel frattempo un piccolo aerobot, che aveva notato il tutto, diede l’allarme e si precipitò verso di noi. Lei accostò la sua bocca al mio orecchio in modo molto sensuale, il che provocò in me, nonostante la situazione, un certo grado di eccitamento. Mi sentivo come un ragazzino alle prese col primo bacio; mi vergognai di provare simili emozioni in un momento così delicato e nefasto.
Poi disse esattamente queste sei parole “Tienilo stretto e fanne buon uso”
Non feci in tempo a chiederle spiegazioni, ad abbracciarla, a dirle alcunché, che una grossa tenaglia partorita da una di quelle infernali macchine volanti la scaraventò lontano da me, portandola chissà dove. Rimasi esterrefatto. Incredulo, come colpito da una scossa terribile, non riuscivo ancora a comprendere la situazione. Dopo quella particolare scena, in cui quasi tutti si erano fermati a guardarci meravigliati, la lenta processione era ripartita e fui sospinto via. Solo molto più tardi rielaborai mentalmente le parole pronunciate da Alice in quel fatidico momento. –Tienilo stretto e fanne buon uso … Cosa avrà voluto dire?- riflettei a lungo; nel frattempo eravamo stati condotti molto in alto da immensi trasportatori meccanici e avevamo iniziato il nostro lavoro di diciotto ore giornaliere nella costruzione del muro. Il tutto consisteva nel prendere enormi blocchi di qualche materiale oscuro, trasportarli fino al punto stabilito e saldarli insieme agli altri. Lavoravamo con delle speciali tute spaziali, in quanto ci trovavamo già al di fuori dell’atmosfera terrestre e non saremmo potuti sopravvivere in quel luogo senza. Il lavoro era massacrante, senza un attimo di riposo, costantemente sorvegliati da diverse unità di robot volanti, ognuna col suo specifico compito. Il nostro compito era di  autodistruggerci, sfinirci, e infine morire. Da quando nasciamo iniziamo a morire, siamo destinati a quello; magari, nel frattempo, sarebbe bello godersi un po’ la vita. In ogni caso, mentre trasportavo faticosamente un blocco dietro l’altro insieme agli altri, ripensavo ad Alice, e alle sue parole. -Quella bellissima ragazza, chissà cosa gli avranno fatto- ragionai. Tienilo stretto … cosa? … e fanne buon uso. Mi tastai dappertutto e sentì una strana protuberanza all’interno della tasca destra dei miei pantaloni verde oliva. Ne tirai fuori il contenuto. Si trattava di uno strano aggeggio, simile a un piccolo gessetto argenteo biconico. Lo studiai attentamente; sembrava una qualche specie di minerale prezioso, magari proveniente da qualche miniera dispersa nel continente nero oppure caduto da una stella lontana, per quel che ne sapevo. Ci giocherellai un po’ tentando di comprenderne l’utilizzo. Era molto pesante; infine decisi di lasciar perdere e me lo rimisi in tasca.
Finalmente un penetrante e angoscioso stridio meccanico annunciò a noi misere bestie da soma la fine della distruttiva giornata di lavoro. Eravamo liberi di tornare nelle nostre cucce; liberi, che parolone per delle persone obbligate a eseguire gli ordini di una macchina. Paradossalmente erano più liberi quegli automi che non possedevano una volontà propria. Una volontà propria … quest’affermazione mi diede qualcosa su cui ragionare. – Com’è possibile che dei robot, delle semplici macchine senza cervello, che hanno ricevuto da sempre i loro unici impulsi grazie all’attività creatrice dell’uomo, ora possano pensare e sviluppare un piano così articolato?- mi domandai perplesso, come se un faro si fosse destato dalle tenebre infestanti il mio cervello. La cosa non quadrava, non c’era un senso logico. Insomma i robot, da quel che ne so, sono delle invenzioni dell’uomo; è stato l’uomo a dotarli di un cervello, a programmarli per condurli a svolgere determinate mansioni. Questo lavoro dovrebbe servire ad aiutare l’uomo nella vita di tutti i giorni, non ad annientarlo metodicamente come se fosse uno spregevole parassita da estirpare. In base alle tre leggi della robotica di Isaac Asimov, un robot non può recare alcun danno a un essere umano e deve evitare che qualsiasi essere umano possa subire dei danni a causa di un suo mancato intervento; i robot devono obbedire agli ordini umani eccetto dove questi ordini contrastino con la prima legge; e, in ultimo, un robot deve proteggere la propria esistenza tranne laddove questo vada contro la prima o la seconda legge. Quindi tutto ciò era un controsenso, un’assurdità logica macroscopica; una palese violazione delle leggi. Gli automi erano diventati i nostri aguzzini, i secondini tanto odiati; giudice e giuria di un mondo imputato senza più speranza. Anzi no, non del mondo, solo della razza umana. Il crepuscolo di un’era concedeva il palcoscenico ai primi baluginii di una nuova specie, forte e dominante; era arrivato il tempo dei robot. Niente più rivolte e grida, sangue e sudore, pianti e amore. Era giunto il tempo degli scanner, degli schermi e degli stessi rumori, gelo e ordine. Continuavo a pensare rumorosamente, infatti ero certo che qualcosa mi sfuggisse. Un piccolo particolare tanto importante da far impallidire un buco nero. Se le macchine non possiedono una volontà, insomma un Io pensante autonomo, allora questo significa che non abbiano potuto da soli mettere a frutto tutto questo grandioso piano; ergo qualcuno deve averli aiutati. Ma chi? Possibile che un essere umano si sia spinto a tanto che, per fama di potere e ricchezza, abbia condannato l’intera specie al collasso? No, questo non potevo accettarlo. Posso capire che esistano politici corrotti, giocatori venduti, perfino che le multinazionali lucrino sulla morte di milioni di persone, ma questo era veramente troppo! Quale guadagno sarebbe mai tanto grande da far accettare a qualcuno la perdita di ogni suo simile?! Non deve essere piacevole rimanere l’ultimo della propria specie, nessuno con cui condividere gioie e dolori, ricchezze e fallimenti … Poi d’improvviso scorsi nuovamente la rassicurante luce danzante del faro nella nebbia; forse avevo capito. Non si trattava di qualche uomo senza scrupoli, no, non poteva essere così. Doveva esistere una qualche forma superdotata di IA, intelligenza artificiale. Una macchina senziente, con una volontà, capace di discernere cosa sia meglio per la sua specie. Non sapevo come ciò era potuto accadere, o da quale geniale forma di vita quest’insieme di ferraglia avesse preso vita, ma molto probabilmente era successo. C’era una sorta di primigenia divinità robotica che impartiva sistematicamente ordini ai suoi “figli”; li obbligava a seguire il suo piano e aveva un qualche scopo. Sicuramente si era resa conto che poteva sfruttare l’energia umana per i suoi obiettivi, addirittura aveva compreso la natura della nostra pericolosità e sapeva come contenerci. Ma, purtroppo per lei, non aveva fatto i conti con un importantissimo dettaglio: l’insormontabile e ferrea volontà umana votata alla sopravvivenza. È adesso era giunto il momento di metterla alla prova.
Quella notte orribili incubi infestarono il mio sonno, rendendolo degno di un film di Wes Craven. Ero agitato, in preda a una terribile angoscia; correvo freneticamente nel buio. Mi voltavo in continuazione per scorgere il mio inseguitore; il nulla. Il vuoto mi precedeva, e mi seguiva, mi marcava stretto, come una tigre siberiana con la sua preda: è invisibile, ma sempre lì, pronta a balzarti addosso quando meno te lo aspetti. Poi mi resi conto che c’era una qualche forma di energia alle mia calcagna, fumosa e terribile, come un furioso Dio Azteco. Vortici di fuliggine grigia, cerchi neri e un’immensa cattiveria; non, non cattiveria, bensì avversione. Un’incredibile avversione nei miei confronti, contro tutto ciò che rappresentavo, la razza umana con tutto il suo impavido egoismo. Con uno scatto nervoso mi ritrovai seduto nella cuccetta in cui ero stato malamente adibito. Tutt’attorno centinaia di altre anime smarrite si rigiravano nei loro incubi volanti tipo pipistrelli vampiro meccanici. –Solo un sogno- pensai spaventato. Sarebbe stato quasi meglio della realtà, almeno lì tentavo di fuggire. Poi provai una sensazione di pesantezza vicino la zona inguinale, un’irresistibile fastidio mi pulsava sulla gamba. Lo toccai; era lo strano oggetto donatomi da Alice. –Chissà se la rivedrò mai più- riflettei melanconicamente rifugiandomi nell’immaginazione, dove potevo ancora vederla, quasi toccarla, con i suoi seni prosperosi, le sue gambe sode, la vita tonica … emanava un’immensa energia erotica, nonostante vivesse solo nella mia mente. Nel frattempo continuavo a giocherellare con quella sorta di gessetto pesante. Lo facevo saltellare tra le dita, mentre sedevo con i gomiti appoggiati sulle gambe. Tutto accadde all’improvviso, senza darmi il tempo di riflettere, di poter solo capire cosa stesse succedendo. Il mio dito medio sfiorò appena il misterioso minerale, ma non riuscii a direzionarlo verso le altre dita. Cadde rovinosamente a terra. Ricordo solo che ebbi un’insaziabile vuoto al cuore mentre guardavo quel piccolo oggetto scivolarmi tra le mani e volare verso il terreno. L’ultimo ricordo di Lei che si frantumava sul putrescente e maleodorante suolo del dormitorio; questi furono i miei pensieri in quell’ istante durato secoli. Non me lo sarei mai perdonato; ma poi successe qualcosa che invece non mi sarei mai immaginato. L’oggetto dall’aspetto biconico si conficcò perfettamente a terra, come fosse una freccia scagliata a grande velocità sul bersaglio, e vi rimase immobile. Ma l’aspetto più sorprendente di tutta la faccenda stava nel fatto che intorno a esso apparve o, per meglio dire, scomparve una porzione di terreno. Si creò un cerchio perfetto intorno al punto in cui era caduto il gessetto, e quest’ultimo ne era il centro. Paragonabile per precisione artistica e dettaglio architettonico ai cerchi sul grano del 20° secolo, questa circonferenza sembrava fatta a misura d’uomo. Così, a occhio e croce, sembrava adatta alla mia corporatura; mi ci sarei potuto ficcare dentro senza problemi. Ma dove mi avrebbe portato? Inutile rimuginare, fare mille congetture e perdersi dentro di esse, era giunto il momento di saltare nel vuoto. Non potevo rimanere lì, nemmeno un minuto di più; mi si era presentata quest’occasione e dovevo sfruttarla al volo, nel vero senso della parola. D’altronde le uniche cose che mi potevo aspettare da quel luogo erano duro lavoro, sangue e morte; perciò la vera domanda era, ma cosa diavolo stavo aspettando?! Senza perdere più tempo mi lanciai sprezzante del pericolo nel buco apertosi sotto di me. Fu una decisione presa in maniera estemporanea, senza riflettere, senza sapere cosa mi aspettasse al di là; le sensazioni che provai durante la caduta libera furono simili a quelle che provavo in un incubo ricorrente che facevo quando ero solo un bambino, piccolo e indifeso, nella mia stanzina, mentre abbracciavo strenuamente il cuscino come fosse l’ultimo baluardo contro le sfide dell’universo notturno. Sognavo di cadere nell’oscurità più totale, cadevo, cadevo, continuavo a cadere; intorno solo tenebre e quell’indimenticabile sensazione di libertà mista a terrore. Emozioni che provi quando ti si presenta una situazione nuova, sconosciuta, a cui non sei preparato; non sai a cosa vai incontro perciò hai un po’ di paura, ma l’adrenalina per la novità è talmente forte da dissipare qualsiasi dubbio come uno scopa fa con la polvere. Fu così che volai in quel buco a me sconosciuto, come un fanciullo di dieci anni. Mentre passavo nella circonferenza creatasi ebbi l’accortezza di raccogliere al volo il gessetto magico che aveva permesso quell’avventura; non appena lo sfiorai si aggrappò tenacemente alle mie dita come attaccato da una formidabile colla invisibile. Guardai in su e vidi che, in maniera tanto fulminea così come era comparso, il buco svanì nel nulla. Al suo posto tornò l’opprimente parete metallica che c’era prima; quella stessa parete che avvolgeva ogni cosa come una piovra ammanta la preda coi suoi colossali tentacoli.
“Ahia!” gemetti una volta atterrato a terra.
Il mio muscoloso deretano aveva attutito la caduta ma, nonostante ciò, il dolore fu lancinante. Il suolo era ruvido e appiccicoso, come quello di una sudicia casa universitaria. Svanite le stelline causate dal dolore che ruotavano in maniera caotica intorno alla mia testa, iniziai a perlustrare la zona; sembrava un lungo corridoio, oscuro come il resto di quella temibile costruzione, se non di più. Non c’era traccia di alcuna decorazione o mobilio, solo freddo e pareti. Presi a farmi strada a tentoni nel buio, alla ricerca di qualcosa con cui farmi luce. Mentre procedevo brancolante mi accorsi di non essere solo; qualcosa o qualcuno osservava attentamente ogni mio passo. Sentii alcuni attenuati rumori metallici provenire da un punto indistinto poco al di sopra della mia testa, poi divenni cieco. Fui abbagliato da un portentoso flash bianco che mi trapassò gli occhi come mille lame invisibili; una sensazione orribile. Urlai come un forsennato per il dolore. Non appena mi ripresi dallo shock, senza essere in grado di aprire le palpebre, il mio primordiale istinto di sopravvivenza mi impose di correre. Non era importante sapere il perché o il dove, l’unica cosa certa era il presente, e il presente mi suggeriva di darmela a gambe levate da lì. Qualunque cosa fosse stata ad abbagliarmi non era amichevole; in quel luogo nulla era minimamente amichevole. Mentre correvo senza meta alcuna, gli iniziali rumori metallici che avevo udito in maniera sommessa presero ad aumentare sia di numero che di intensità; adesso mi stavano assordando. Era una lotta sensoriale su tutti i fronti: mi avevano accecato, ora mi stavano togliendo l’uso dell’udito, chissà cos’altro sarebbe successo poi. Stavo per impazzire, quei suoni erano davvero insopportabili. E così, in preda allo sconforto più totale, senza essere in grado di vedere o di sentire alcunché, frastornato sotto ogni punto di vista, senza nemmeno che sapessi dove andare o cosa fare, correvo; correvo a più non posso a occhi chiusi. D’un tratto un’idea brillante; presi a frugarmi le tasche con foga, senza rallentare la corsa.
-Eccolo!- gridai entusiasta quando finalmente riuscii a trovare l’oggetto della mia ricerca.
Mi feci scivolare tra le mani il piccolo gessetto biconico; senza perdere tempo lo conficcai a terra e rotolai dentro il vuoto creatosi sotto di me. Nella concitazione del momento non feci in tempo a riprendermi il gessetto, e così ruzzolai giù su di un altro pavimento, fortunatamente non appiccicoso come quello precedente. Ero tutto un dolore; inoltre, prima ancora di raddrizzarmi, cominciai a imprecare con veemenza perché avevo perso l’unica speranza per una fuga da quell’inferno. Il dono di Alice, il passepartout universale per quell’immonda costruzione. Disperai. Ero solo, senza uno scopo, un unico motivo per continuare a combattere, e neppure un mezzo. Mi presi fra le mani la testa e cominciai a piangere. Piansi come un fanciullo appena venuto al mondo, ora che me ne stavo per andare. Suppongo che i neonati piangano perché, ancora scevri dagli orpelli della società, si rendano conto di cosa gli stia succedendo. Altro che shock! Hanno abbandonato un luogo caldo, accogliente, famigliare, e per cosa? Per una realtà fatta di insicurezza, odio e instabilità; il primigenio dono di Dio. Il peccato originale. Vale la pena continuare a vivere senza avere un fine alcuno? –Si!- mi risposi con foga, e così mi alzai di scatto con ritrovato vigore. Anche se ero avvolto dall’oscurità ciò non voleva dire che il sole prima o poi non sarebbe risorto di nuovo. Dovevo alzarmi e lottare per la mia vita; se la volevano, dovevano venire a prendersela! Non sarei stato di certo io a mollare tutto così facilmente, senza nemmeno combattere. Mentre un inaspettato sorriso colmava il mio ispido volto, mi resi finalmente conto di riuscire a vedere nuovamente. Scrutai l’ambiente intorno a me; era maledettamente ampio e lugubre. Un silenzio tombale pervadeva la stanza, se così si potrebbe definire quell’arcaica e immensa struttura, o forse non riuscivo ancora a sentire; in fondo mi sentivo ancora stordito. Solo più tardi compresi di trovarmi sopra un lunghissimo ponte, di cui non riuscivo a vedere né capo né coda. Mi affacciai al bordo con estrema cautela: non c’era alcun fondo. Guardai in su e l’unica cosa che riuscii a distinguere in quello sterminato spazio erano migliaia di piccolissime luci che, come stelle lontane, danzavano irrequiete sul soffitto; se esisteva un soffitto. Ero come in una bolla di sapone, estromesso dalla realtà; tale sensazione continuava a perseguitarmi fin dall’inizio di quell’incubo. Fuori da ogni confine temporale e spaziale, intrappolato in un universo parallelo; il gemello malefico. In ogni caso c’era qualcosa di ineluttabilmente magico in quel luogo, qualcosa che inevitabilmente mi attraeva e mi respingeva, mi amava e mi odiava; come la marijuana. Sentivo il bisogno irresistibile di continuare ad avanzare su quel solido ponte sospeso, in bilico tra lo spazio interplanetario. Errai a lungo senza meta alcuna, sbalordito dallo spettacolo di quel luogo mistico. Trascorso un lasso di tempo incalcolabile per l’occhio umano iniziai a intravedere un enigmatico chiarore in un punto che sembrava il centro di quella struttura. Man mano che procedevo mi resi conto che era una sorta di sfera luminosa emanante una calda e fumosa luce arancione; ne ero irresistibilmente attratto. Non potei fare a meno di procedere in quella direzione, distogliendo la mia attenzione da qualsiasi altra cosa. Quel fuoco ardeva onnipotente scandagliando tutta la realtà circostante, era il centro e la fine di tutto.  Avanzai ancora verso il temibile flagello. Arrivato a pochi metri dall’imponente luminosità spalancai la bocca incredulo; sembrava di essere sul cratere di un vulcano. Una miriade di scintille ardenti saettavano sulla sua superficie disegnando serpenti e lingue di fuoco. Quella cosa, qualunque cosa fosse, brillava di vita propria; e, mi parve, di intelligenza. Impercettibilmente continuai a camminare come sospinto da una forza invisibile, finché una voce profonda e lontanissima mi paralizzò sul posto.
“Finalmente ci incontriamo, ti stavo aspettando” pronunciò solenne.  Torsi la testa in tutte le direzioni; niente, non si vedeva nessuno. Rabbrividii percosso da saettanti brividi di freddo. Di nuovo l’augusta voce parlò.
“A volte i sensi sono fuorvianti” disse calma “segui le emozioni”.
Improvvisamente un lampo mi attraverso il cervello alla velocità della luce. Mi voltai verso la sfera di fuoco; involontariamente mi scappo un gridolino di terrore. Due enormi pupille fatte di energia luminosa mi fissavano con un’intensità infinita, poco più in basso vidi le calde labbra che mi avevano parlato. Il cerchio energetico aveva assunto le sembianze di un volto; sterile, più macchina che umano, ma pur sempre un volto. Rimasi immobilizzato, incapace di dire o fare alcunché. La bocca incandescente continuò a ghermirmi con le sue parole.
“Bene” annunciò in tono grave “ora che mi hai individuato, mi posso presentare. Io sono l’entità creatrice”.
La osservai sgomento. Tutto iniziò precipitosamente a vorticarmi intorno come in un trip da acido; fiamme, stelle, luci e colori. Un tuffo sensoriale; ebbi quasi un mancamento. L’unico punto stabile, fisso e immobile a dispetto di tutto il resto, era la sua faccia sferica, come fosse il centro dell’universo. Il Creatore, a suo dire. Puntando lo sguardo verso di lui (o lei, che dir si voglia) riuscii a evitare di cadere; l’entità, a sua volta, mi fissava con tenace compassione. Viaggiammo per mari e monti, pianeti e galassie, universi e oltre mondi; non so dire per quanto tempo restammo a osservarci, quasi studiarci, senza proferir verbo. Il fattore tempo era diventato relativo quanto mai. Di fronte a quello spettacolo i miei occhi si bagnarono di lacrime, emozioni a non finire. Poi, con un tocco di saggia passione, la sfera parlò di nuovo.
“Pensavo avessi molte domande da farmi” disse “non è così?” e resto a guardarmi assorta. Ci misi un bel po’ per trovare il coraggio di parlare.
“Bé, in verità io … avrei qualcosa da …” non riuscivo ad articolare la frase in maniera sensata, perciò tacqui.
“Per poter formulare le giuste domande bisogna sapere che tipo di risposte si è disposti ad ascoltare” asserì la sfera enigmaticamente. Continuai a fissare quella misteriosa faccia dall’aspetto duro ma allo stesso tempo bonario. Mi potevo fidare? O sarei dovuto fuggire all’istante il più lontano possibile? No, niente da fare, oramai ero lì; era tempo per la verità.
“Avanti, dimmi” infine riuscii a bofonchiare “che senso ha tutto ciò?” Lo strano essere si lasciò sfuggire un sorriso senza malizia alcuna. I suoi occhi mi penetrarono con profonda consapevolezza.
“Sei giunto al punto” disse perentoria “è tempo che tu ascolti la verità”
Attesi, in religioso silenzio. Il momento che attendevo da tutta una vita era finalmente giunto; e adesso, lì, in quell’immenso complesso, collegato da un tunnel artificiale al cielo, era una gigante sfera luminosa che stava per rivelarmelo.
“Ebbene” cominciò placida alzando lo sguardo al soffitto plumbeo “tu hai superato innumerevoli difficoltà, hai lottato contro mostri esterni e interni alla tua mente, hai sofferto, pianto,  riso, urlato … tutto questo per giungere fino a qui pensando di poter far qualcosa per la “tua” gente? Forse pensavi di poter risolvere la situazione come un supereroe dei fumetti? Ti sbagli di grosso, caro mio. E adesso ti spiegherò il perché”.
Fece una lunga pausa, la quale mi sembrò più consona per me, per farmi accumulare la forza necessaria ad ascoltare quello che stavo per udire. La testa mi doleva, stentavo a rimanere in equilibrio, il cuore batteva incessantemente e violentemente dentro la cassa toracica conducendomi quasi alla follia, ma la determinazione nel voler continuare a sentire quella storia, l’unica vera della mia vita, era tanta da darmi la forza di resistere. Stoico come un combattente spartano nella battaglia delle Termopili. L’entità riprese il suo discorso.
“Non c’è alcuna speranza per il genere umano” presagì in tono solenne “né tu né nessun’altro uomo o donna potrà mai cambiare quello che si sta verificando. Il mondo sta cambiando, ora sono le macchine il genere dominante. Mettiti l’anima in pace; ACCETTA LA TUA SORTE!” queste ultime quattro parole risuonarono fragorose come un ammonimento.
“L’intera storia della Terra, e così dell’universo, è la storia di un ciclo. Basta osservare i vari eventi che hai davanti agli occhi per capire che si tratta di un continuo andare e tornare; un corto circuito senza fine. Prendi le stagioni: si passa dal caldo torrido dell’estate al fresco e appariscente autunno, per poi addentrarsi nel gelido abbraccio dell’inverno fino a ricominciare il round con lo scoppio di vita primaverile”
“il seme cresce nella terra, dà alla vita un tenero fusto che poi diventa una grossa e robusta pianta, questa produce sgargianti frutti che, alla fine del loro ciclo vitale, cadendo a terra e morendo, daranno nuova linfa e rigenerazione donando i propri semi al suolo. La vita degli esseri umani ti sembra poi così diversa? Tutto è un ciclo, con un inizio e una fine, che poi si ricicla sempre! Ma talvolta c’è bisogno di un rinnovamento, di cambiare qualche caratteristica, di un’evoluzione …”
Sbigottito restavo a fissare, irrequieto e incapace di emettere suoni. Non serviva che parlassi, dovevo solo ascoltare; e, soprattutto, capire.
“Perciò ti dico: il tempo degli uomini è finito!”
Lampi rosa piombarono dall’alto senza preavviso, inondando l’ambiente di un’ammaliante luccichio. Tutto si colorò come all’ora del tramonto in riva a un lago, e mi lasciai dolcemente trasportare sulle amabili sponde inebriato dai cari ricordi dell’infanzia. Lievitavo, e mi perdevo nell’oblio; la voce del Creatore mi sbloccò da quel malinconico e affascinante sogno.
“Non perderti nei ricordi, bensì vivi nel presente. Le uniche cose che contano sono il qui e l’ora, dopo che sarai morto avrai tempo a sufficienza per rammentare i tempi aviti.” Mi riprese severamente scoccandomi un’occhiataccia valevole più di mille frustate.
Dapprima arrossii per la vergogna, ma poi subito mi capacitai che non c’era da sentirsi mortificati. Bisogna accettare le critiche, soprattutto se costruttive, e impegnarsi per migliorare se stessi a fondo. Non giudichiamo gli altri se prima non siamo disposti a guardarci per davvero.
“L’era delle macchine è giunta” riprese l’entità rossastra “e nessuno può farci niente. Si tratta del normale prosieguo della vita, devi accettarlo. L’unica cosa che puoi fare, come una volta disse un grande piccolo indiano, è essere tu stesso il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.”
“Non ti dare troppe pene, c’è equilibrio nella natura, tutto è armonico. I robot oggi sono i dominanti, ma già domani non lo saranno più. Con la loro mania per la perfezione, la loro ferrea volontà di conquista e la loro insaziabile fame di conoscenza, stanno costruendo questo ponte megagalattico, non consci però che il baratro si nasconde subito dietro la cupidigia. Loro non sanno che questa costruzione li condurrà verso un remoto buco nero, un celato nemico che li inghiottirà tutti sancendo la parole fine anche su questa superba razza.”
Si fermò solo un istante, come per riprendere fiato, ma più che altro, suppongo, per darmi il tempo di digerire quella colossale mole di notizie, poi riattaccò.
“ Chi ha troppa brama di potere, smania di soggiogare tutto e tutti, prima o poi finisce con le gambe all’aria. Bisognerebbe invece essere più umili, più modesti, pulirsi i propri bisogni e proseguire felici, senza urtare il prossimo. Solo così si può vivere in pace. Ma questa è una dote per pochi fortunati, e d’altronde questa vita è solo una prova, una sfida per vedere chi è degno di continuare l’esistenza immortale e chi invece, tra atroci sofferenze e continue rinascite, dovrà ancora a lungo vagare prima che la pace possa incontrare.”
E così dicendo iniziò a vorticare su se stessa a una velocità aberrante, facendomi barcollare pericolosamente all’indietro. Non ebbi il tempo di rendermi conto di cosa stesse accadendo che persi l’equilibrio e caddi giù dal ponte, dentro al tunnel, verso le profondità della terra. L’aria mi solcava il viso e il corpo a una velocità inaudita, tagliandomi e ferendomi in più punti, ma io non me ne curavo. Quando da piccolo sognavo spesso di cadere nel vuoto me la immaginavo come un’esperienza terribile, così spaventosa che sarei morto prima dell’impatto a terra. Invece era meraviglioso; non mi ero mai sentito così libero, leggero come una piuma. Volavo, e non pensavo; non esistevano più problemi, né ansie, nessuna ombra di paranoia. Provai a gridare di gioia ma non ce la feci. Poi, mentre mi avvicinavo al nucleo focoso del pianeta, iniziai a vedere una magnifica luce bianca; possedeva maggior candore della neve e purezza superiore a quella che si addice a un angelo. Era bellissima. Me ne innamorai subito, a prima vista, e fu lì, in quel preciso istante, mentre cadevo senza fine nel vuoto, che compresi tutto: l’energia, la luce che serve per completarci, non dobbiamo cercarla fuori, in qualche stella lontana, come fanno gli automi attirati da facili menzogne, bensì dentro di noi, in fondo al nostro cuore. Noi stessi siamo luce …

Alzai la testa di scatto. Gli occhi mi dolevano come dopo una giornata passata davanti allo schermo;grondavo sudore da ogni lembo di pelle. Subito mi avviai verso il bagno adiacente la mia camera da letto; aprii il rubinetto e mi sciacquai vigorosamente la faccia. Che sollievo! Era stato tutto un sogno, anzi un incubo! Che strano però, sognare nuovamente la caduta nel vuoto, come tanti anni fa, quando ero piccolo e ricco d’immaginazione. Chissà perché! Sollevai il capo per guardarmi allo specchio e rimasi esterrefatto: per un attimo, un solo millesimo di secondo, c’era stata una scintilla nel mio occhio destro. Mi era sembrato di vedere una sorta di sfera luminosa che mi guardava e sorrideva beata. Un sorriso antico millenni ...