Mi svegliai, improvvisamente sudavo. Goccioline
roventi ticchettavano incessantemente sull’ispido terreno; musica ovunque.
“Dove sono?” pensai, mentre tentavo goffamente di
alzarmi.
Strani eco si insediarono all’interno delle mucose.
Cercai di divincolarmi da quella massa informe. Una baraonda di macchine, ero
circondato da robot; migliaia di robot. Lastre luccicanti, schermi e bulloni. Un
repentino senso di panico mi avvolse.
“Ma dove sono finito?” disperai.
Mentre spingevo per fuggire da quell’accozzaglia
sottomessa, urtavo da ogni lato; mi ferivo. Strisce di sangue dipingevano il
terreno come fosse una macabra opera d’arte. Nessuno si accorse di nulla,
ciascuno così preso dal suo automatismo. Non esiste la volontà, è uno scherzo,
una bugia. Un’invenzione dei mass media. Il panico si trasformò in terrore così
bruscamente da far intimidire un agile ghepardo. Boccheggiavo; quel muro
fantascientifico bloccava l’accesso anche alla più timida brezza. Inciampai nel
dolore. Buio, buio, sempre più buio. L’oscurità mi avvolse nel suo ombroso
mantello. Poi, d’un tratto, la luce. Mani brancolavano verso di me, carne e
grida, unghie e pellicine. Orribile meraviglia umana. Fui sollevato dall’oblio.
“Dai, presto!” qualcuno gridò da un punto indistinto.
Dalla voce pensai si trattasse di una ragazza. “Non possiamo rimanere troppo,
si accorgeranno di noi!”
Rinvigorito da quella passione che solamente un
essere vivente poteva emettere, cominciai frettolosamente a camminare. Non
sapevo dove, né il perché, seguivo l’istinto; sopravvivere. L’ombra salvifica
che pedinavo saettava velocemente nella semi-oscurità. Man mano che
proseguivamo quella che inizialmente mi era sembrata musica si affievolì. Anche
le macchine si diradavano sempre più. Mi voltai; non era musica … tutti quegli
automi erano come ipnotizzati da un imponente palco. Sopra, una riproduzione
mastodontica di una cassa da concerto. E quel terribile suono, mi violentava le
orecchie! Ma sembrava una piacevole droga per quel branco addomesticato. Più
che altro un tremendo psicofarmaco; un forte scossone mi fece tornare coi piedi
per terra.
“Non dormire!” mi sgridò la giovane voce femminile
“abbiamo ancora molta strada da fare”
Sconsolato e confuso, la seguii senza opporre
resistenza. – Cos’altro potrei fare?- pensai amareggiato. In fondo non sapevo
più nulla; mi ero svegliato all’inferno, e lei me ne stava tirando fuori. L’ultima
cosa che ricordavo prima di quella sventura era … niente! Non ricordavo
assolutamente nulla. Mi sforzai di rivangare qualche immagine dal mio passato,
inutilmente. Era come se fossi stato azzerato, ero rinato; non ero nessuno. Nonostante
facesse caldo, raggelai. Immerso in un turbinio di pensieri e domande,
continuai a camminare senza dir nulla.
Stavamo percorrendo un lungo tratto di spiaggia
macabro e desolato quando finalmente la mia attraente salvatrice aprì bocca. Era
alta, con un fisico forte e atletico ma slanciato, due seni prosperosi, gambe
sode e formose. Lunghi capelli biondi le solcavano il grazioso e semplice
visetto, senza ombra di trucco. Occhi grandi e penetranti mi studiavano con
attenzione , mentre con la bocca e il naso sembrava carpire ogni minimo
movimento.
“Siamo quasi arrivati” annunciò in tono quasi
solenne “il Buco è vicino” aggiunse, con un lampo negli occhi.
Non capii subito cosa volesse dire; continuava
imperterrita nel suo agile e rapido passo, mentre io le stavo dietro ansimante.
Colsi l’occasione per proferir parola.
“Il Buco?” chiesi annaspando “Cos’è?”
“Risparmia il fiato” controbatté severa “ne avrai
bisogno …” disse, senza smorzare il passo.
Poco dopo mi resi conto del perché; infatti
arrivammo ai piedi di un aspro colle. Sembrava parecchio arduo da superare,
stracolmo com’era di sassi instabili e arbusti inespugnabili. Ebbi quasi un
mancamento.
“Non mi dire che dobbiamo oltrepassare questo
coso?!” le domandai con enfasi tremolante. Le forze mi stavano abbandonando a
causa dello shock iniziale e della lunga camminata, non credevo di potercela
fare.
“Proprio così!” affermò con decisione la graziosa
figura che mi precedeva “Forza, non perdiamo tempo!”
“Ma perché l’hai chiamato il Buco? Sembra più una
fortezza medievale!”
“Zitto e cammina!” mi urlò seccata, già impegnata
nella dura scalata.
Sbuffando, iniziai a seguirla. No che non fossi
abituato a grandi sforzi, in fondo ho sempre amato l’intenso allenamento
fisico; il problema era che tutta la realtà che circondava il mio fragile
guscio stava crollando come un castello di carte al vento. Non sapevo più chi
ero, cosa cercavo, in cosa credevo; il dubbio ammorbava il mio spirito. Quasi
da subito il volto mi si imperlò di sudore; -dura arrampicata- pensai mentre
ero impegnato a trovare un appiglio per le mani. Tentavo goffamente di rimanere
stabile, ma sbattevo in continuazione la testa contro la roccia sporgente, per
non parlare dei rami che mi graffiavano gambe e braccia provocandomi un’acuta
sensazione di sofferenza, come tanti minuscoli aghi conficcati a forza nella carne;
una sensazione assai spiacevole. Caldo; caldo e fatica. Avrei voluto essere a
casa, sul mio letto, perfino in poltrona. Volevo la mamma, fermarmi a riposare,
piangere!
-Perché nessuno mi ascolta?!- urlai nella mia testa.
Tutto intorno a me iniziò ad annebbiarsi, come in una laguna al calar della
sera. Mi stavo lentamente ma inesorabilmente scollegando dalla realtà
circostante, così iniziai a errare nell’infinità dell’universo. Vagavo tra le
stelle sconfinate, nel buio più totale, tra luci colossali e palazzi di cristallo.
Piansi nello scrutare l’ignoto, desiderando unicamente di fondermi con lo
spazio, essere parte del tutto, per sempre …
“Ei! Ei!” grida dall’alto mi penetrarono nei timpani
come scosse sismiche scuotono le fondamenta di un edificio. Ero di nuovo
sveglio, forse.
“Continua a salire!” mi ordinò severamente la
ragazza.
Ripresi a salire, sbuffando vigorosamente. Dopo un
periodo di tempo che mi sembrò infinito, finalmente raggiungemmo il famigerato
buco. A primo impatto mi sembrò solo una grossa cavità nel colle, ma poi,
guardando meglio, mi resi conto della maestosità di quel luogo. Un complesso
sistema di grotte arcane ricavate nella roccia. Tutto sembrava così preciso,
lavorato al dettaglio, un’opera ingegneristica di elevata fattura. Al mio
stupore nell’ammirare quella costruzione si aggiungeva lo stupore di una
piccola folla accorsa attorno a me, producendo un’atmosfera surreale. Persone
curiose si avvicendavano nello scrutarmi, domandandosi chi fossi, come fosse
possibile trovare ancora esseri senzienti in libertà tra tutti quegli automi.
Occhi furtivi posarono i loro sguardi indagatori su di me, mentre mani languide
mi sfioravano per accertarsi delle mie fattezze.
Si sentiva la gente mormorare “Ma chi è?” “Un nuovo
sopravvissuto?” “Mamma, mamma, quel signore ha tutti peli in faccia!”
Risi in silenzio; -che meraviglia la sincerità dei
fanciulli!- pensai in quel momento. Ovviamente si riferiva alla lunghezza
titanica della mia barba, tralasciando il fatto dei capelli ricci e lunghi fino
alle spalle; sembravo un hippy futurista, un selvaggio alle prese col mondo
moderno, insomma un disadattato. Forse volevo esserlo.
“Ora posso sapere chi sei?” domandai alla mia
accompagnatrice, che sfilava come una dea amazzone facendomi strada tra la
folla.
“Lei è mia figlia, Alice” così fece la sua
apparizione sulla scena un vecchio dall’aria tanto saggia quanto esaurita “e io
mi chiamo Tony. Sono il pastore di questo piccolo gregge” concluse meditabondo.
-O cazzo- pensai –spero proprio di non essere finito
in una di quelle strane sette di cui si sente parlare in tv!-. Ma poi mi
sbalordii di questo pensiero; come potevo ancora immaginarmi la tv? O
qualcos’altro che concerne il mondo reale? Sono morto, oppure sono andato in
coma e sto viaggiando tra le spire del mio cervello; qui non c’è nulla che abbia
a che fare la normalità.
“Sei ancora tra noi?” il vecchio mi guardava
penetrandomi con i suoi profondi occhi
blu, come se riuscisse a scandagliare i misteri più inaccessibili della mia
anima con quel suo sguardo di ghiaccio “dicevo” proseguì “questo è il Buco.
Nient’altro che un piccolo insediamento dove abbiamo trovato riparo da quelle
…” fece una pausa roteando gli occhi “orribili macchine”.
Dicendo questo le sue parole cambiarono tono e quasi
forma in maniera emblematica; aveva posto un particolare accento di disprezzo
sulla parola macchine. Le odiava dall’alba dei tempi; perlomeno dei suoi, di
tempi.
“Che cosa sono queste macchine?” chiesi intrepido “e
perché vi nascondete da loro? Io poco fa ero sommerso da questi cosi ma non
sembravano volermi fare del male, non erano ostili, solo …”
“Sono dei mostri!” “Adorano la devastazione e la
morte!” fui interrotto da grida di indignazione da parte del popolo.
“Basta su! Fate SILENZIO!” ordinò Tony, riportando
l’ordine all’interno della grotta nella collina.
Le voci prima diventarono sussurri, poi si
affievolirono fino a zittirsi. Era una situazione irreale, all’interno di un
monte, circondato da terra rossa e teste bianche, disperso dal mondo come lo
conosciamo. Alzai lo sguardo verso l’alto; d’improvviso fui colto da una luce
folgorante dritto negli occhi. Per qualche istante non vidi più nulla, zero
assoluto. Poi, lentamente, piccoli flash di colore iniziarono a impadronirsi
nuovamente della mia vista e potei captare qualche confusa immagine. Non
riuscivo a capire cosa stesse succedendo, tutt’intorno urla e grida; ma non
erano come prima, non erano voci di rabbia, bensì pianti di terrore, lamenti
terribili, fughe scalpitate. Tentai di mettere a fuoco il tutto. Mi trovavo
accovacciato in un angolo del Buco, con la testa appoggiata a terra; polvere
dorata si infilava in ogni cavità aperta del mio viso rendendomi quasi
impossibile la respirazione. Sputai rumorosamente, poi alzai lo sguardo. Era la
devastazione più completa; orde di aerei dotati della più sofisticata e
avanzata tecnologia che io avessi mai visto stavano sparando reti su tutti i
fuggiaschi. Purtroppo per gli altri, avevano utilizzato anche armamenti
pesanti; infatti si poteva ammirare il tetro spettacolo di resti umani
spiaccicati un po’ ovunque, sangue spruzzato sulle pareti e brandelli di
indumenti svolazzanti. Un putrido sentore di morte aleggiava nell’aria e
rendeva il tutto così immobile, nonostante le grida, le macchine, la concitata
dissoluzione dell’umanità ancora esistente. –Ci hanno seguito?- riflettei, come
se lo sfacelo circostante fosse alieno dalle mie membra. Osservai poco più in
alto, e fu in quell’istante che mi accorsi di una cosa che non avevo
minimamente notato prima, troppo preso dalle vane preoccupazioni umane; il
cielo si era oscurato. O almeno parzialmente oscurato. Mura inaccessibili e
monumentali si ergevano circolarmente da ogni lato della terra; non era più
possibile ammirare l’alba, o il tramonto. Neppure la linea dell’orizzonte
sarebbe stata più visibile! Disperai per un momento, senza pensare agli aerei
annientatori che mi circondavano; disperai e basta. Il cielo era stato
violentato da quella immonda costruzione, e nessuno l’avrebbe mai più rimesso
com’era, la violenza aveva osato troppo. Un immane peccato contro tutto il
creato era stato compiuto e io, solo, gemetti di straziante dolore. Ora era
visibile solo una piccola porzione di cielo, che comunque emanava una notevole
luce; ma sembrava pur sempre di essere confinati in un pozzo, un angusto e claustrofobico
pozzo di campagna. Inizialmente non riuscì a capire l’utilità di quella
muraglia –che cosa possono voler raggiungere?- meditai scombussolato. Un tunnel
che colleghi la terra a cosa? Un altro pianeta? Il sole? La luna?! O chissà
cos’altro! In ogni caso sarebbe stato del tutto inutile, dato il continuo
movimento dei pianeti e delle stelle qualsiasi tentativo di collegamento della
Terra con qualcos’altro di mobile nello spazio sarebbe stato assolutamente vano.
Allora cosa stavano tentando di fare?
“Che cosa diavolo volete fare con quello?!” urlai,
quasi in maniera inconscia, alzandomi di scatto, sollevando così un bel
polverone rossastro.
Gli aerei robot rimasti, che fino a quel momento non
mi avevano notato, puntarono il loro caleidoscopico grugno nella mia direzione.
Erano enormi, metallici da far paura e producevano dei suoni a dir poco
traumatici; come un trapano a tutta potenza nella stanza accanto alle sei del
mattino. Ben presto mi pentii amaramente di aver parlato. Prima ancora di poter
far partire dal cervello il segnale nervoso che avrebbe portato alcune parti del
mio corpo a muoversi, una di quelle tremende apparecchiature mi inondò con un
flash luminoso e mi scaraventò a terra. Mi resi conto di esser finito in una di
quelle pesanti reti con cui avevano catturato molti degli altri; -i più
fortunati- ragionai con l’ultimo bagliore di lucidità. Poi, il vuoto.
Aprii
gli occhi, mentre la luce della luna piena penetrava offuscata nella stanza.
Ombre indistinte baluginavano qua e là sulle pareti, piroettando come in una
danza russa. Orchestra e balli primaverili in cerca di un pubblico; le
pantofole e poi …
Nauseabondi versi metallici ronzavano senza freni
nelle mie orecchie; provai un senso di disgusto. Sputai sangue e sulle labbra
arse dilagò il ripugnante sapore del ferro; ancora metallo. Tentai di aprire
gli occhi, ma subito emisi un verso di agghiacciante dolore. Le palpebre dolevano
e bruciavano come se migliaia di piccole zampette bollenti ci stessero
camminando sopra.
“Aspetta qualche minuto” sentenziò una saggia voce
nell’oscurità “Dai il tempo ai tuoi occhi di riprendersi dai flash accecanti
degli aerobot”
-Aerobot- pensai annebbiato –adesso so come si
chiamano quelle maledette macchine che mi hanno preso. Che sollievo! Ora posso
morire in pace- Fare sarcasmo in certi momenti credo si tratti di una abilità
per pochi impavidi, imprese per eroi d’altri tempi.
“Chi sei tu?” domandai al vuoto soggiogato dalla
sofferenza.
“Io? Cosa importa chi sono io, o chi siamo noi. Siamo
tutti morti, carne da mandare al macello. Come delle povere bestie con il
destino ormai segnato, camminiamo per un lungo e oscuro corridoio senza
chiederci il perché, ma siamo tristi. Sappiamo della fine incombente, ma
nonostante ciò nulla si può fare; il triste fato ci attende”
Rimasi confuso da tali parole; mi avevano colpito come
un fulmine in un caldo giorno d’estate. Ero paralizzato dalla testa ai piedi. Non
sapevo cosa pensare o cosa fare; sbagliato! Sapevo cosa fare: provare ad aprire
gli occhi. Tentai nuovamente con rinnovato vigore. Questa volta, con grande
sacrificio, riuscì a intravedere qualcosa. Una lunga e folta barba, grigia come
la cenere al mattino nel bel mezzo del camino.
“Complimenti, figliuolo” bofonchiò quella misteriosa
voce che ora riconoscevo essere un uomo anziano dall’aspetto assai saggio
“bentornato fra noi” Il suo sorriso era soave e innocente, come quello di un
bambino.
“Dove siamo?” gli domandai mettendomi a carponi.
“Dove? E chi lo sa! Sono anni che sono rinchiuso qui
dentro insieme a queste altre anime dannate” dicendo così si spostò mostrandomi
il complesso. Un luogo raccapricciante, sovraffollato di gente, senza aria;
claustrofobico solo a guardarlo. Non c’era nessun mobilio, né alcuna finestra,
niente di niente; solo buio e mura. Una prigione di ferro nera.
“Ogni giorno siamo chiamati ad aiutare le macchine a
costruire quel maledettissimo muro, sempre più in alto, sempre più su! E per
chissà cosa poi?! Io sono il più longevo qui dentro, quello che ha resistito di
più, e ancora non conosco la ragione di tale costruzione!. Qui la vita è dura,
si mangia male e poco, si sgobba tanto e non si dorme mai” poi, avvicinando il
suo volto al mio, aggiunse contraendo il volto in una smorfia raggrinzita “E tu,
quanto credi di poter resistere?”
In quel momento provai un terrore profondo, quasi
come se provenisse dalle più sconosciute profondità degli abissi per attanagliarmi
l’anima. Si avviluppò su di me come una tigre sulla sua preda, affondando i
suoi affilati artigli sul mio ego.
“Ma … ma .. come è possibile?” balbettai in preda al
panico “Che cosa se ne fanno di noi?” urlai voltandomi verso gli altri e guardandoli
con aria disperata e interrogativa “Sono dei robot, giusto? E allora perché
cazzo devono usare manodopera umana per fare il loro sporco lavoro?!”
Gli altri si scambiarono sguardi allusivi;
conoscevano già la risposta, ma era troppo umiliante per poterla accettare. Il
signore dallo sguardo sapiente ebbe il coraggio, o la pietà, di continuare a
parlare.
“Per dimostrare la loro superiorità su di noi.
Semplice, no?” annunciò con tono quasi compiaciuto “Ora te lo spiego” e fece
una pausa “pensa alla storia che ci hanno raccontato da piccoli. Se ricordi
bene, ci sono tanti esempi di ciò nel nostro passato: come i faraoni egiziani
facevano costruire le loro tombe, le piramidi, agli schiavi, così fanno loro
con noi. Come i mass media comandavano a bacchetta la gente nel ventesimo e
ventunesimo secolo così loro adesso comandano noi. Ci usano per i loro scopi,
senza neanche dire grazie. Siamo degli oggetti, utili finché utilizzabili, e
poi da buttar via; un vecchio asciugamano usato. Vogliono dimostrare la loro
forza, quanto possono osare, e per dare sfogo a questo loro senso di
superiorità usufruiscono delle nostre energie, delle nostre vite!” pontificò
solenne.
“Certo, è uno schifo, una vita d’inferno, dove la
morte rapida è l’unico desiderio esaudibile e auspicabile; ma non è peggio di
quello che l’uomo ha da sempre fatto a sé stesso. Come nei tuoi esempi, come i
faraoni egiziani, come gli imperatori romani, come i presidenti americani!”
protestò vivacemente qualcuno tra la folla.
Nuovamente piombò il silenzio tra noi; povere bestie
ammassate l’una contro l’altra, senza fiato. Come in un thriller ben fatto. Mi
guardai intorno, incredulo. Era pieno di gente, donne e bambini, neri e bianchi, giovani e anziani, tutti
insieme appassionatamente per assecondare i desideri di qualche malata mente
robotica. Tutto sembrava così assurdo.
“E voi permettete tutto ciò?” urlai, in preda alla
disperazione più acuta, rivolto a tutti e a nessuno “continuate a lavorare per
quegli automi senza ragiona alcuna, giorno dopo giorno, ora dopo ora, in attesa
della fine? Come potete permettere tutto ciò?!”
“E cos’altro potremmo fare?” gridò indignato
l’anziano saggio “Credi di essere il primo ad avere avuto la brillante idea di
ribellarsi, di non lavorare, di provare a scappare?”
pose particolare enfasi nel pronunciare quest’ultima parola.
Si era particolarmente agitato nel rispondere alle
mie accuse, e così gli era venuto un attacco convulso di tosse; alcuni intorno
a lui lo aiutarono a sedersi. Sputò una grumosa quantità di sangue e saliva a
terra. Passata la tosse, si risistemò, alzò lo sguardo cercando i miei occhi
con i suoi, e poi continuò a parlare.
“Chiunque abbia mai provato a scappare è stato
catturato da loro ancor prima di poterci pensare. Dio solo sa che fine abbiano
fatto …” detto questo la sua voce si smorzò. Probabilmente stava cercando di
recuperare le residue forze rimastegli; l’indomani avrebbe dovuto continuare a
erigere l’opera, come d’altronde tutti noi.
Ricordo che pensai che sarebbe stato meglio un salto
verso l’ignoto piuttosto che rimanere lì ad aspettare la chiamata della morte,
ma decisi di non controbattere. Sinceramente non fa parte del mio carattere
compatire chi si arrende agli eventi della vita senza tentare perlomeno di
combattere, di resistere. Io ho sempre lottato nella vita per raggiungere i
miei obiettivi, e che li abbia poi effettivamente raggiunti o meno poco
importa, l’importante è battersi strenuamente. Darsi da fare fino all’ultimo;
questo ti porta a crescere, e anche a capire. Rimasi a lungo a pensare, accalcato
insieme a quel triste tripudio di carne e ossa, in silenzio.
Un freddo e stridente ululato echeggiò dappertutto
nell’oscurità della caverna facendomi sobbalzare in aria; sembravo l’unico così
spaventato da quel rumore assordante, gli altri lo accolsero come si accoglie
un ospite particolarmente indesiderato. Facce grevi e sguardi pesanti si
avvicendarono tra la folla, producendo un’atmosfera di assorta malinconia e
stanchezza cronica. Sembrava un lunedì mattina in una grande fabbrica in mezzo
a degli operai abbastanza svogliati.
“Che succede?” chiesi a una donna di mezza età
alquanto malconcia che mi stava affianco.
“Inizia il turno” mi rispose senza alcuna emozione.
La guardai e mi commossi. Poteva essere mia madre;
ma in lei non c’era più vita, era morta dentro. Come un animale al circo. Poi
fu la luce. Mi accecò per un istante e dovetti ripararmi gli occhi per non
rischiare di perderne l’uso, cosa che comunque accadde temporaneamente. Quando
fui in grado di riaprirli mi resi conto che una serie di macchine, della specie
di aerobot simili a quelli del giorno precedente, ma più piccoli e senza i
cannoni di cui erano dotati gli altri, controllavano il flusso dei lavoratori.
Tutti si stavano spostando verso una determinata direzione, ma da dietro non
riuscì a captare la meta. Cominciai a muovermi, sospinto dalla marea umana che
incalzava; non ci si poteva fermare. Poco dopo mi accorsi che tutti si
spostavano in direzione di alcuni giganteschi ascensori aperti che conducevano
verso l’alto, molto probabilmente nella zona adibita al lavoro. E fu lì che la
vidi. I suoi seni gonfi, le gambe lunghe e sode, le dita affusolate, un corpo da
dea. Alice, la mia salvatrice; il mio angelo.
“Alice!” gridai “Alice!Alice!” alzai il volume di
modo che potesse sentirmi tra il frastuono della macchine e i passi rimbombanti
degli schiavi.
Era con un altro gruppo di lavoratori, sporca e
ferita. Il suo sguardo non emanava più l’ardore del giorno precedente; era
stata catturata, ora era come un uccello in gabbia. Dopo che la chiamai, alzò
lo sguardo, cercò per un po’ in giro la fonte di quel rumore e poi mi vide;
subito sembrò ritrovare parte dell’audacia persa, i suoi occhi si infiammarono
di nuova linfa. Il richiamo della natura selvaggia giaceva ancora in lei,
assopito ma non distrutto. Mi fece un cenno agitato con la mano, incredula di
avermi ritrovato. Si guardò intorno per assicurarsi che le macchine fossero
abbastanza lontane da lei, dopo di ché, a grandi balzi e spintonando chiunque
si trovasse sul suo cammino, mi raggiunse di gran carriera. Si fermò a un panno
dal mio viso; mi squadrò a lungo senza parlare. Poi, dopo un’interminabile
attesa, mi abbracciò. Nel frattempo un piccolo aerobot, che aveva notato il
tutto, diede l’allarme e si precipitò verso di noi. Lei accostò la sua bocca al
mio orecchio in modo molto sensuale, il che provocò in me, nonostante la
situazione, un certo grado di eccitamento. Mi sentivo come un ragazzino alle
prese col primo bacio; mi vergognai di provare simili emozioni in un momento
così delicato e nefasto.
Poi disse esattamente queste sei parole “Tienilo
stretto e fanne buon uso”
Non feci in tempo a chiederle spiegazioni, ad
abbracciarla, a dirle alcunché, che una grossa tenaglia partorita da una di
quelle infernali macchine volanti la scaraventò lontano da me, portandola
chissà dove. Rimasi esterrefatto. Incredulo, come colpito da una scossa
terribile, non riuscivo ancora a comprendere la situazione. Dopo quella
particolare scena, in cui quasi tutti si erano fermati a guardarci
meravigliati, la lenta processione era ripartita e fui sospinto via. Solo molto
più tardi rielaborai mentalmente le parole pronunciate da Alice in quel
fatidico momento. –Tienilo stretto e fanne buon uso … Cosa avrà voluto dire?-
riflettei a lungo; nel frattempo eravamo stati condotti molto in alto da
immensi trasportatori meccanici e avevamo iniziato il nostro lavoro di diciotto
ore giornaliere nella costruzione del muro. Il tutto consisteva nel prendere
enormi blocchi di qualche materiale oscuro, trasportarli fino al punto
stabilito e saldarli insieme agli altri. Lavoravamo con delle speciali tute
spaziali, in quanto ci trovavamo già al di fuori dell’atmosfera terrestre e non
saremmo potuti sopravvivere in quel luogo senza. Il lavoro era massacrante,
senza un attimo di riposo, costantemente sorvegliati da diverse unità di robot
volanti, ognuna col suo specifico compito. Il nostro compito era di autodistruggerci, sfinirci, e infine morire. Da
quando nasciamo iniziamo a morire, siamo destinati a quello; magari, nel
frattempo, sarebbe bello godersi un po’ la vita. In ogni caso, mentre
trasportavo faticosamente un blocco dietro l’altro insieme agli altri,
ripensavo ad Alice, e alle sue parole. -Quella bellissima ragazza, chissà cosa
gli avranno fatto- ragionai. Tienilo stretto … cosa? … e fanne buon uso. Mi tastai
dappertutto e sentì una strana protuberanza all’interno della tasca destra dei
miei pantaloni verde oliva. Ne tirai fuori il contenuto. Si trattava di uno
strano aggeggio, simile a un piccolo gessetto argenteo biconico. Lo studiai
attentamente; sembrava una qualche specie di minerale prezioso, magari
proveniente da qualche miniera dispersa nel continente nero oppure caduto da
una stella lontana, per quel che ne sapevo. Ci giocherellai un po’ tentando di
comprenderne l’utilizzo. Era molto pesante; infine decisi di lasciar perdere e
me lo rimisi in tasca.
Finalmente un penetrante e angoscioso stridio
meccanico annunciò a noi misere bestie da soma la fine della distruttiva
giornata di lavoro. Eravamo liberi di tornare nelle nostre cucce; liberi, che
parolone per delle persone obbligate a eseguire gli ordini di una macchina.
Paradossalmente erano più liberi quegli automi che non possedevano una volontà
propria. Una volontà propria … quest’affermazione mi diede qualcosa su cui
ragionare. – Com’è possibile che dei robot, delle semplici macchine senza
cervello, che hanno ricevuto da sempre i loro unici impulsi grazie all’attività
creatrice dell’uomo, ora possano pensare e sviluppare un piano così
articolato?- mi domandai perplesso, come se un faro si fosse destato dalle
tenebre infestanti il mio cervello. La cosa non quadrava, non c’era un senso
logico. Insomma i robot, da quel che ne so, sono delle invenzioni dell’uomo; è
stato l’uomo a dotarli di un cervello, a programmarli per condurli a svolgere
determinate mansioni. Questo lavoro dovrebbe servire ad aiutare l’uomo nella
vita di tutti i giorni, non ad annientarlo metodicamente come se fosse uno
spregevole parassita da estirpare. In base alle tre leggi della robotica di
Isaac Asimov, un robot non può recare alcun danno a un essere umano e deve
evitare che qualsiasi essere umano possa subire dei danni a causa di un suo
mancato intervento; i robot devono obbedire agli ordini umani eccetto dove
questi ordini contrastino con la prima legge; e, in ultimo, un robot deve
proteggere la propria esistenza tranne laddove questo vada contro la prima o la
seconda legge. Quindi tutto ciò era un controsenso, un’assurdità logica
macroscopica; una palese violazione delle leggi. Gli automi erano diventati i
nostri aguzzini, i secondini tanto odiati; giudice e giuria di un mondo
imputato senza più speranza. Anzi no, non del mondo, solo della razza umana. Il
crepuscolo di un’era concedeva il palcoscenico ai primi baluginii di una nuova
specie, forte e dominante; era arrivato il tempo dei robot. Niente più rivolte
e grida, sangue e sudore, pianti e amore. Era giunto il tempo degli scanner,
degli schermi e degli stessi rumori, gelo e ordine. Continuavo a pensare
rumorosamente, infatti ero certo che qualcosa mi sfuggisse. Un piccolo
particolare tanto importante da far impallidire un buco nero. Se le macchine
non possiedono una volontà, insomma un Io pensante autonomo, allora questo
significa che non abbiano potuto da soli mettere a frutto tutto questo
grandioso piano; ergo qualcuno deve
averli aiutati. Ma chi? Possibile che un essere umano si sia spinto a tanto che,
per fama di potere e ricchezza, abbia condannato l’intera specie al collasso?
No, questo non potevo accettarlo. Posso capire che esistano politici corrotti,
giocatori venduti, perfino che le multinazionali lucrino sulla morte di milioni
di persone, ma questo era veramente troppo! Quale guadagno sarebbe mai tanto
grande da far accettare a qualcuno la perdita di ogni suo simile?! Non deve
essere piacevole rimanere l’ultimo della propria specie, nessuno con cui
condividere gioie e dolori, ricchezze e fallimenti … Poi d’improvviso scorsi
nuovamente la rassicurante luce danzante del faro nella nebbia; forse avevo
capito. Non si trattava di qualche uomo senza scrupoli, no, non poteva essere
così. Doveva esistere una qualche forma superdotata di IA, intelligenza
artificiale. Una macchina senziente, con una volontà, capace di discernere cosa
sia meglio per la sua specie. Non sapevo come ciò era potuto accadere, o da
quale geniale forma di vita quest’insieme di ferraglia avesse preso vita, ma
molto probabilmente era successo. C’era una sorta di primigenia divinità
robotica che impartiva sistematicamente ordini ai suoi “figli”; li obbligava a
seguire il suo piano e aveva un qualche scopo. Sicuramente si era resa conto
che poteva sfruttare l’energia umana per i suoi obiettivi, addirittura aveva
compreso la natura della nostra pericolosità e sapeva come contenerci. Ma,
purtroppo per lei, non aveva fatto i conti con un importantissimo dettaglio:
l’insormontabile e ferrea volontà umana votata alla sopravvivenza. È adesso era
giunto il momento di metterla alla prova.
Quella notte orribili incubi infestarono il mio
sonno, rendendolo degno di un film di Wes Craven. Ero agitato, in preda a una
terribile angoscia; correvo freneticamente nel buio. Mi voltavo in
continuazione per scorgere il mio inseguitore; il nulla. Il vuoto mi precedeva,
e mi seguiva, mi marcava stretto, come una tigre siberiana con la sua preda: è
invisibile, ma sempre lì, pronta a balzarti addosso quando meno te lo aspetti.
Poi mi resi conto che c’era una qualche forma di energia alle mia calcagna,
fumosa e terribile, come un furioso Dio Azteco. Vortici di fuliggine grigia,
cerchi neri e un’immensa cattiveria; non, non cattiveria, bensì avversione.
Un’incredibile avversione nei miei confronti, contro tutto ciò che
rappresentavo, la razza umana con tutto il suo impavido egoismo. Con uno scatto
nervoso mi ritrovai seduto nella cuccetta in cui ero stato malamente adibito.
Tutt’attorno centinaia di altre anime smarrite si rigiravano nei loro incubi
volanti tipo pipistrelli vampiro meccanici. –Solo un sogno- pensai spaventato.
Sarebbe stato quasi meglio della realtà, almeno lì tentavo di fuggire. Poi
provai una sensazione di pesantezza vicino la zona inguinale, un’irresistibile
fastidio mi pulsava sulla gamba. Lo toccai; era lo strano oggetto donatomi da
Alice. –Chissà se la rivedrò mai più- riflettei melanconicamente rifugiandomi
nell’immaginazione, dove potevo ancora vederla, quasi toccarla, con i suoi seni
prosperosi, le sue gambe sode, la vita tonica … emanava un’immensa energia
erotica, nonostante vivesse solo nella mia mente. Nel frattempo continuavo a
giocherellare con quella sorta di gessetto pesante. Lo facevo saltellare tra le
dita, mentre sedevo con i gomiti appoggiati sulle gambe. Tutto accadde
all’improvviso, senza darmi il tempo di riflettere, di poter solo capire cosa
stesse succedendo. Il mio dito medio sfiorò appena il misterioso minerale, ma
non riuscii a direzionarlo verso le altre dita. Cadde rovinosamente a terra.
Ricordo solo che ebbi un’insaziabile vuoto al cuore mentre guardavo quel
piccolo oggetto scivolarmi tra le mani e volare verso il terreno. L’ultimo
ricordo di Lei che si frantumava sul putrescente e maleodorante suolo del
dormitorio; questi furono i miei pensieri in quell’ istante durato secoli. Non
me lo sarei mai perdonato; ma poi successe qualcosa che invece non mi sarei mai
immaginato. L’oggetto dall’aspetto biconico si conficcò perfettamente a terra,
come fosse una freccia scagliata a grande velocità sul bersaglio, e vi rimase
immobile. Ma l’aspetto più sorprendente di tutta la faccenda stava nel fatto
che intorno a esso apparve o, per meglio dire, scomparve una porzione di
terreno. Si creò un cerchio perfetto intorno al punto in cui era caduto il
gessetto, e quest’ultimo ne era il centro. Paragonabile per precisione
artistica e dettaglio architettonico ai cerchi sul grano del 20° secolo, questa
circonferenza sembrava fatta a misura d’uomo. Così, a occhio e croce, sembrava
adatta alla mia corporatura; mi ci sarei potuto ficcare dentro senza problemi.
Ma dove mi avrebbe portato? Inutile rimuginare, fare mille congetture e
perdersi dentro di esse, era giunto il momento di saltare nel vuoto. Non potevo
rimanere lì, nemmeno un minuto di più; mi si era presentata quest’occasione e
dovevo sfruttarla al volo, nel vero senso della parola. D’altronde le uniche
cose che mi potevo aspettare da quel luogo erano duro lavoro, sangue e morte;
perciò la vera domanda era, ma cosa diavolo stavo aspettando?! Senza perdere
più tempo mi lanciai sprezzante del pericolo nel buco apertosi sotto di me. Fu
una decisione presa in maniera estemporanea, senza riflettere, senza sapere
cosa mi aspettasse al di là; le sensazioni che provai durante la caduta libera
furono simili a quelle che provavo in un incubo ricorrente che facevo quando
ero solo un bambino, piccolo e indifeso, nella mia stanzina, mentre abbracciavo
strenuamente il cuscino come fosse l’ultimo baluardo contro le sfide
dell’universo notturno. Sognavo di cadere nell’oscurità più totale, cadevo,
cadevo, continuavo a cadere; intorno solo tenebre e quell’indimenticabile
sensazione di libertà mista a terrore. Emozioni che provi quando ti si presenta
una situazione nuova, sconosciuta, a cui non sei preparato; non sai a cosa vai
incontro perciò hai un po’ di paura, ma l’adrenalina per la novità è talmente
forte da dissipare qualsiasi dubbio come uno scopa fa con la polvere. Fu così
che volai in quel buco a me sconosciuto, come un fanciullo di dieci anni.
Mentre passavo nella circonferenza creatasi ebbi l’accortezza di raccogliere al
volo il gessetto magico che aveva permesso quell’avventura; non appena lo
sfiorai si aggrappò tenacemente alle mie dita come attaccato da una formidabile
colla invisibile. Guardai in su e vidi che, in maniera tanto fulminea così come
era comparso, il buco svanì nel nulla. Al suo posto tornò l’opprimente parete
metallica che c’era prima; quella stessa parete che avvolgeva ogni cosa come una
piovra ammanta la preda coi suoi colossali tentacoli.
“Ahia!” gemetti una volta atterrato a terra.
Il mio muscoloso deretano aveva attutito la caduta
ma, nonostante ciò, il dolore fu lancinante. Il suolo era ruvido e appiccicoso,
come quello di una sudicia casa universitaria. Svanite le stelline causate dal
dolore che ruotavano in maniera caotica intorno alla mia testa, iniziai a
perlustrare la zona; sembrava un lungo corridoio, oscuro come il resto di
quella temibile costruzione, se non di più. Non c’era traccia di alcuna
decorazione o mobilio, solo freddo e pareti. Presi a farmi strada a tentoni nel
buio, alla ricerca di qualcosa con cui farmi luce. Mentre procedevo brancolante
mi accorsi di non essere solo; qualcosa o qualcuno osservava attentamente ogni
mio passo. Sentii alcuni attenuati rumori metallici provenire da un punto
indistinto poco al di sopra della mia testa, poi divenni cieco. Fui abbagliato
da un portentoso flash bianco che mi trapassò gli occhi come mille lame
invisibili; una sensazione orribile. Urlai come un forsennato per il dolore.
Non appena mi ripresi dallo shock, senza essere in grado di aprire le palpebre,
il mio primordiale istinto di sopravvivenza mi impose di correre. Non era
importante sapere il perché o il dove, l’unica cosa certa era il presente, e il
presente mi suggeriva di darmela a gambe levate da lì. Qualunque cosa fosse
stata ad abbagliarmi non era amichevole; in quel luogo nulla era minimamente
amichevole. Mentre correvo senza meta alcuna, gli iniziali rumori metallici che
avevo udito in maniera sommessa presero ad aumentare sia di numero che di
intensità; adesso mi stavano assordando. Era una lotta sensoriale su tutti i
fronti: mi avevano accecato, ora mi stavano togliendo l’uso dell’udito, chissà
cos’altro sarebbe successo poi. Stavo per impazzire, quei suoni erano davvero
insopportabili. E così, in preda allo sconforto più totale, senza essere in
grado di vedere o di sentire alcunché, frastornato sotto ogni punto di vista,
senza nemmeno che sapessi dove andare o cosa fare, correvo; correvo a più non
posso a occhi chiusi. D’un tratto un’idea brillante; presi a frugarmi le tasche
con foga, senza rallentare la corsa.
-Eccolo!- gridai entusiasta quando finalmente
riuscii a trovare l’oggetto della mia ricerca.
Mi feci scivolare tra le mani il piccolo gessetto
biconico; senza perdere tempo lo conficcai a terra e rotolai dentro il vuoto
creatosi sotto di me. Nella concitazione del momento non feci in tempo a
riprendermi il gessetto, e così ruzzolai giù su di un altro pavimento,
fortunatamente non appiccicoso come quello precedente. Ero tutto un dolore;
inoltre, prima ancora di raddrizzarmi, cominciai a imprecare con veemenza
perché avevo perso l’unica speranza per una fuga da quell’inferno. Il dono di
Alice, il passepartout universale per quell’immonda costruzione. Disperai. Ero
solo, senza uno scopo, un unico motivo per continuare a combattere, e neppure
un mezzo. Mi presi fra le mani la testa e cominciai a piangere. Piansi come un
fanciullo appena venuto al mondo, ora che me ne stavo per andare. Suppongo che
i neonati piangano perché, ancora scevri dagli orpelli della società, si
rendano conto di cosa gli stia succedendo. Altro che shock! Hanno abbandonato
un luogo caldo, accogliente, famigliare, e per cosa? Per una realtà fatta di
insicurezza, odio e instabilità; il primigenio dono di Dio. Il peccato
originale. Vale la pena continuare a vivere senza avere un fine alcuno? –Si!-
mi risposi con foga, e così mi alzai di scatto con ritrovato vigore. Anche se
ero avvolto dall’oscurità ciò non voleva dire che il sole prima o poi non
sarebbe risorto di nuovo. Dovevo alzarmi e lottare per la mia vita; se la
volevano, dovevano venire a prendersela! Non sarei stato di certo io a mollare
tutto così facilmente, senza nemmeno combattere. Mentre un inaspettato sorriso
colmava il mio ispido volto, mi resi finalmente conto di riuscire a vedere
nuovamente. Scrutai l’ambiente intorno a me; era maledettamente ampio e
lugubre. Un silenzio tombale pervadeva la stanza, se così si potrebbe definire
quell’arcaica e immensa struttura, o forse non riuscivo ancora a sentire; in
fondo mi sentivo ancora stordito. Solo più tardi compresi di trovarmi sopra un
lunghissimo ponte, di cui non riuscivo a vedere né capo né coda. Mi affacciai
al bordo con estrema cautela: non c’era alcun fondo. Guardai in su e l’unica
cosa che riuscii a distinguere in quello sterminato spazio erano migliaia di
piccolissime luci che, come stelle lontane, danzavano irrequiete sul soffitto;
se esisteva un soffitto. Ero come in una bolla di sapone, estromesso dalla
realtà; tale sensazione continuava a perseguitarmi fin dall’inizio di
quell’incubo. Fuori da ogni confine temporale e spaziale, intrappolato in un
universo parallelo; il gemello malefico. In ogni caso c’era qualcosa di
ineluttabilmente magico in quel luogo, qualcosa che inevitabilmente mi attraeva
e mi respingeva, mi amava e mi odiava; come la marijuana. Sentivo il bisogno
irresistibile di continuare ad avanzare su quel solido ponte sospeso, in bilico
tra lo spazio interplanetario. Errai a lungo senza meta alcuna, sbalordito
dallo spettacolo di quel luogo mistico. Trascorso un lasso di tempo
incalcolabile per l’occhio umano iniziai a intravedere un enigmatico chiarore
in un punto che sembrava il centro di quella struttura. Man mano che procedevo
mi resi conto che era una sorta di sfera luminosa emanante una calda e fumosa
luce arancione; ne ero irresistibilmente attratto. Non potei fare a meno di
procedere in quella direzione, distogliendo la mia attenzione da qualsiasi
altra cosa. Quel fuoco ardeva onnipotente scandagliando tutta la realtà
circostante, era il centro e la fine di tutto. Avanzai ancora verso il temibile flagello.
Arrivato a pochi metri dall’imponente luminosità spalancai la bocca incredulo;
sembrava di essere sul cratere di un vulcano. Una miriade di scintille ardenti
saettavano sulla sua superficie disegnando serpenti e lingue di fuoco. Quella
cosa, qualunque cosa fosse, brillava di vita propria; e, mi parve, di
intelligenza. Impercettibilmente continuai a camminare come sospinto da una
forza invisibile, finché una voce profonda e lontanissima mi paralizzò sul
posto.
“Finalmente ci incontriamo, ti stavo aspettando”
pronunciò solenne. Torsi la testa in
tutte le direzioni; niente, non si vedeva nessuno. Rabbrividii percosso da
saettanti brividi di freddo. Di nuovo l’augusta voce parlò.
“A volte i sensi sono fuorvianti” disse calma “segui
le emozioni”.
Improvvisamente un lampo mi attraverso il cervello
alla velocità della luce. Mi voltai verso la sfera di fuoco; involontariamente
mi scappo un gridolino di terrore. Due enormi pupille fatte di energia luminosa
mi fissavano con un’intensità infinita, poco più in basso vidi le calde labbra
che mi avevano parlato. Il cerchio energetico aveva assunto le sembianze di un
volto; sterile, più macchina che umano, ma pur sempre un volto. Rimasi
immobilizzato, incapace di dire o fare alcunché. La bocca incandescente
continuò a ghermirmi con le sue parole.
“Bene” annunciò in tono grave “ora che mi hai individuato,
mi posso presentare. Io sono l’entità creatrice”.
La osservai sgomento. Tutto iniziò precipitosamente
a vorticarmi intorno come in un trip da acido; fiamme, stelle, luci e colori.
Un tuffo sensoriale; ebbi quasi un mancamento. L’unico punto stabile, fisso e
immobile a dispetto di tutto il resto, era la sua faccia sferica, come fosse il
centro dell’universo. Il Creatore, a suo dire. Puntando lo sguardo verso di lui
(o lei, che dir si voglia) riuscii a evitare di cadere; l’entità, a sua volta,
mi fissava con tenace compassione. Viaggiammo per mari e monti, pianeti e
galassie, universi e oltre mondi; non so dire per quanto tempo restammo a
osservarci, quasi studiarci, senza proferir verbo. Il fattore tempo era
diventato relativo quanto mai. Di fronte a quello spettacolo i miei occhi si
bagnarono di lacrime, emozioni a non finire. Poi, con un tocco di saggia
passione, la sfera parlò di nuovo.
“Pensavo avessi molte domande da farmi” disse “non è
così?” e resto a guardarmi assorta. Ci misi un bel po’ per trovare il coraggio
di parlare.
“Bé, in verità io … avrei qualcosa da …” non riuscivo
ad articolare la frase in maniera sensata, perciò tacqui.
“Per poter formulare le giuste domande bisogna
sapere che tipo di risposte si è disposti ad ascoltare” asserì la sfera
enigmaticamente. Continuai a fissare quella misteriosa faccia dall’aspetto duro
ma allo stesso tempo bonario. Mi potevo fidare? O sarei dovuto fuggire
all’istante il più lontano possibile? No, niente da fare, oramai ero lì; era
tempo per la verità.
“Avanti, dimmi” infine riuscii a bofonchiare “che
senso ha tutto ciò?” Lo strano essere si lasciò sfuggire un sorriso senza
malizia alcuna. I suoi occhi mi penetrarono con profonda consapevolezza.
“Sei giunto al punto” disse perentoria “è tempo che
tu ascolti la verità”
Attesi, in religioso silenzio. Il momento che
attendevo da tutta una vita era finalmente giunto; e adesso, lì, in
quell’immenso complesso, collegato da un tunnel artificiale al cielo, era una
gigante sfera luminosa che stava per rivelarmelo.
“Ebbene” cominciò placida alzando lo sguardo al
soffitto plumbeo “tu hai superato innumerevoli difficoltà, hai lottato contro
mostri esterni e interni alla tua mente, hai sofferto, pianto, riso, urlato … tutto questo per giungere fino
a qui pensando di poter far qualcosa per la “tua” gente? Forse pensavi di poter
risolvere la situazione come un supereroe dei fumetti? Ti sbagli di grosso,
caro mio. E adesso ti spiegherò il perché”.
Fece una lunga pausa, la quale mi sembrò più consona
per me, per farmi accumulare la forza necessaria ad ascoltare quello che stavo
per udire. La testa mi doleva, stentavo a rimanere in equilibrio, il cuore
batteva incessantemente e violentemente dentro la cassa toracica conducendomi
quasi alla follia, ma la determinazione nel voler continuare a sentire quella
storia, l’unica vera della mia vita, era tanta da darmi la forza di resistere.
Stoico come un combattente spartano nella battaglia delle Termopili. L’entità
riprese il suo discorso.
“Non c’è alcuna speranza per il genere umano”
presagì in tono solenne “né tu né nessun’altro uomo o donna potrà mai cambiare
quello che si sta verificando. Il mondo sta cambiando, ora sono le macchine il
genere dominante. Mettiti l’anima in pace; ACCETTA LA TUA SORTE!” queste ultime
quattro parole risuonarono fragorose come un ammonimento.
“L’intera storia della Terra, e così dell’universo,
è la storia di un ciclo. Basta osservare i vari eventi che hai davanti agli
occhi per capire che si tratta di un continuo andare e tornare; un corto
circuito senza fine. Prendi le stagioni: si passa dal caldo torrido dell’estate
al fresco e appariscente autunno, per poi addentrarsi nel gelido abbraccio
dell’inverno fino a ricominciare il round con lo scoppio di vita primaverile”
“il seme cresce nella terra, dà alla vita un tenero
fusto che poi diventa una grossa e robusta pianta, questa produce sgargianti
frutti che, alla fine del loro ciclo vitale, cadendo a terra e morendo, daranno
nuova linfa e rigenerazione donando i propri semi al suolo. La vita degli
esseri umani ti sembra poi così diversa? Tutto è un ciclo, con un inizio e una
fine, che poi si ricicla sempre! Ma talvolta c’è bisogno di un rinnovamento, di
cambiare qualche caratteristica, di un’evoluzione …”
Sbigottito restavo a fissare, irrequieto e incapace
di emettere suoni. Non serviva che parlassi, dovevo solo ascoltare; e,
soprattutto, capire.
“Perciò ti dico: il tempo degli uomini è finito!”
Lampi rosa piombarono dall’alto senza preavviso,
inondando l’ambiente di un’ammaliante luccichio. Tutto si colorò come all’ora
del tramonto in riva a un lago, e mi lasciai dolcemente trasportare sulle
amabili sponde inebriato dai cari ricordi dell’infanzia. Lievitavo, e mi
perdevo nell’oblio; la voce del Creatore mi sbloccò da quel malinconico e
affascinante sogno.
“Non perderti nei ricordi, bensì vivi nel presente.
Le uniche cose che contano sono il qui e l’ora, dopo che sarai morto avrai
tempo a sufficienza per rammentare i tempi aviti.” Mi riprese severamente
scoccandomi un’occhiataccia valevole più di mille frustate.
Dapprima arrossii per la vergogna, ma poi subito mi
capacitai che non c’era da sentirsi mortificati. Bisogna accettare le critiche,
soprattutto se costruttive, e impegnarsi per migliorare se stessi a fondo. Non
giudichiamo gli altri se prima non siamo disposti a guardarci per davvero.
“L’era delle macchine è giunta” riprese l’entità
rossastra “e nessuno può farci niente. Si tratta del normale prosieguo della
vita, devi accettarlo. L’unica cosa che puoi fare, come una volta disse un
grande piccolo indiano, è essere tu stesso il cambiamento che vuoi vedere nel
mondo.”
“Non ti dare troppe pene, c’è equilibrio nella
natura, tutto è armonico. I robot oggi sono i dominanti, ma già domani non lo
saranno più. Con la loro mania per la perfezione, la loro ferrea volontà di
conquista e la loro insaziabile fame di conoscenza, stanno costruendo questo
ponte megagalattico, non consci però che il baratro si nasconde subito dietro
la cupidigia. Loro non sanno che questa costruzione li condurrà verso un remoto
buco nero, un celato nemico che li inghiottirà tutti sancendo la parole fine
anche su questa superba razza.”
Si fermò solo un istante, come per riprendere fiato,
ma più che altro, suppongo, per darmi il tempo di digerire quella colossale
mole di notizie, poi riattaccò.
“ Chi ha troppa brama di potere, smania di
soggiogare tutto e tutti, prima o poi finisce con le gambe all’aria.
Bisognerebbe invece essere più umili, più modesti, pulirsi i propri bisogni e
proseguire felici, senza urtare il prossimo. Solo così si può vivere in pace.
Ma questa è una dote per pochi fortunati, e d’altronde questa vita è solo una
prova, una sfida per vedere chi è degno di continuare l’esistenza immortale e
chi invece, tra atroci sofferenze e continue rinascite, dovrà ancora a lungo
vagare prima che la pace possa incontrare.”
E così dicendo iniziò a vorticare su se stessa a una
velocità aberrante, facendomi barcollare pericolosamente all’indietro. Non ebbi
il tempo di rendermi conto di cosa stesse accadendo che persi l’equilibrio e
caddi giù dal ponte, dentro al tunnel, verso le profondità della terra. L’aria
mi solcava il viso e il corpo a una velocità inaudita, tagliandomi e ferendomi
in più punti, ma io non me ne curavo. Quando da piccolo sognavo spesso di
cadere nel vuoto me la immaginavo come un’esperienza terribile, così spaventosa
che sarei morto prima dell’impatto a terra. Invece era meraviglioso; non mi ero
mai sentito così libero, leggero come una piuma. Volavo, e non pensavo; non
esistevano più problemi, né ansie, nessuna ombra di paranoia. Provai a gridare
di gioia ma non ce la feci. Poi, mentre mi avvicinavo al nucleo focoso del
pianeta, iniziai a vedere una magnifica luce bianca; possedeva maggior candore
della neve e purezza superiore a quella che si addice a un angelo. Era
bellissima. Me ne innamorai subito, a prima vista, e fu lì, in quel preciso
istante, mentre cadevo senza fine nel vuoto, che compresi tutto: l’energia, la
luce che serve per completarci, non dobbiamo cercarla fuori, in qualche stella
lontana, come fanno gli automi attirati da facili menzogne, bensì dentro di
noi, in fondo al nostro cuore. Noi stessi siamo luce …
Alzai
la testa di scatto. Gli occhi mi dolevano come dopo una giornata passata
davanti allo schermo;grondavo sudore da ogni lembo di pelle. Subito mi avviai
verso il bagno adiacente la mia camera da letto; aprii il rubinetto e mi
sciacquai vigorosamente la faccia. Che sollievo! Era stato tutto un sogno, anzi
un incubo! Che strano però, sognare nuovamente la caduta nel vuoto, come tanti
anni fa, quando ero piccolo e ricco d’immaginazione. Chissà perché! Sollevai il
capo per guardarmi allo specchio e rimasi esterrefatto: per un attimo, un solo
millesimo di secondo, c’era stata una scintilla nel mio occhio destro. Mi era
sembrato di vedere una sorta di sfera luminosa che mi guardava e sorrideva
beata. Un sorriso antico millenni ...